“Il Cavallo Rosso” di E. Corti - Ambrogio Riva 1
Ambrogio è il secondo figlio di Gerardo Riva, l’industriale che dà tanto lavoro a tanta gente e il primo maschio tra i fratelli.- Autore:
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Ambrogio è il secondo figlio di Gerardo Riva, l’industriale che dà tanto lavoro a tanta gente (E.Corti, Il cavallo rosso, pag.13) e il primo maschio tra i fratelli. Studia al collegio S. Carlo di Milano, dove conosce Michele Tintori, suo carissimo e intelligentissimo amico. Ma egli è molto unito anche a Stefano Giovenzana, l’amico che abita alla Nomanella, una cascina nella periferia di Nomana, dove è sempre accolto con grande gioia, perché figlio del buon industriale Gerardo. Ambrogio è affascinato dalla semplicità e dalla bontà della famiglia Giovenzana.
Con lo scoppio della guerra, la classe del 1921, compresi Stefano e gli amici di Ambrogio, viene immediatamente chiamata alle armi. Ambrogio, invece, viene momentaneamente risparmiato. Intanto aiuta il padre, proprietario di una fabbrica tessile che dà lavoro alla gran parte della popolazione. Su consiglio del padre parte per trascorrere un periodo di vacanza a Cesenatico, sulla riviera romagnola. Qui Ambrogio ha il suo primo incontro con una ragazza, Tricia, studentessa del liceo Berchet, anche lei in villeggiatura al mare, con la famiglia. Dopo un piacevole periodo estivo, trascorso in compagnia del cugino Manno a casa in licenza e con Tricia, inizia con l’amico Michele l’università. Si iscrive alla facoltà di Economia alla Cattolica di Milano, mentre l’amico sceglie giurisprudenza. Per qualche mese trascorrono una vita goliardica, con scorribande nei corridoi femminili a osservare le ragazze di Lettere e Magistero mentre escono da lezione e studiando poco. A febbraio riceve la lettera-richiamo che lo porta a Cremona alla scuola artiglieri e poi a Casale Monferrato alla scuola ufficiali. L’Ottavo Reggimento Artiglieria Pasubio parte per il fronte russo nel giugno del 1942, nelle retrovie a Jasinovàtaia. Per alcuni mesi la vita trascorre tranquilla, tanto che Ambrogio ha l’occasione di recarsi in visita dall’amico Stefano e di incontrare il meccanico Luca, alpino nel reggimento dov’è cappellano don Gnocchi, grande amico di famiglia. Riceve molte lettere da casa e il cibo non manca mai. Durante i suoi spostamenti si rende conto dell’infelice situazione in cui si trovano gli Italiani: i mezzi motorizzati sono pochi, le armi sono vecchie e i vestiti sono inadeguati al freddo che sta per sopraggiungere. Il fatto che egli sia cosciente della realtà in cui è, attutisce in qualche modo il disagio iniziale che colpisce gli Italiani all’inizio della ritirata. E’ “preparato” al peggio.
Nel dicembre 1942 arriva l’ordine di abbandonare le posizione sul Don. La colonna di Ambrogio è formata dalla divisione di fanteria Pasubio e Torino, dai resti delle due legioni di camicie nere Montebello e Tagliamento, dall’unità di corpo d’armata e dalla 298a divisione tedesca: 20/25 mila Italiani e 5/6 mila Tedeschi. La loro destinazione è Mescoff. La marcia lunga e estenuante nel freddo miete moltissime vittime; alcuni vengono abbandonati lungo la strada ancora vivi e urlanti per la paura e per il dolore delle ferite, sapendo che per loro non c’è più nulla da fare, moriranno assiderati. Dilagano le dicerie su linee amiche immaginarie, che risollevano gli animi ai soldati. Il problema più grave che ha colpito l’esercito italiano e che ha provocato disagi e a volte ulteriori perdite è il disordine. Gli ufficiali non riescono a fare marciare in fila i propri uomini, che creano confusione e attirano lo sguardo del nemico. Inoltre, durante le sparatorie finiscono per uccidersi accidentalmente l’uno con l’altro, proprio per la mancanza di ordine. L’unica squadra in cui non si verificherà mai il disordine è quella degli alpini.
Ambrogio viene ferito in seguito ad un attacco russo. Medicato dal sottoufficiale Paccoi, riprende il cammino, anche se con molta fatica. Lungo la strada cresce il numero di automezzi abbandonati sul ciglio della strada, perché senza benzina, carichi di feriti che chiedono di essere salvati. Ma per loro non c’è nulla da fare. Grazie alla testardaggine di Paccoi, che non vuole abbandonare il suo ufficiale, Ambrogio arriva ad Arbusov (ribattezzata poi la valle della morte). Paccoi lo nasconde in una cantina ben riparata in mezzo alla neve, dove si trovano rifugiati anche i Russi del paese. Fuori si scatena il finimondo. I Russi hanno circondato gli Italiani. Alcuni presi dal panico si suicidano, altri vengono catturati e giustiziati, soprattutto gli sbandati. Incredibilmente l’esercito italiano, con l’aiuto dei Tedeschi, riesce a sfondare e a uscire dalla valle. Ambrogio e Paccoi, anche egli rimasto ferito a un braccio, aiutandosi a vicenda nella camminata verso la stazione, vengono raccolti e portati all’ospedale di Leopoli, in Polonia. Dei venticinquemila Italiani giunti ad Arbusov, ne sono usciti solo quattromila. In ospedale hanno l’occasione di scambiare informazioni con gli altri degenti e così scoprono che i Russi che prima occupavano Leopoli, fuggendo hanno ucciso tutti i signori, le signore e i preti che si trovavano in carcere. Per questo gli infermieri sono così restii a raccontare. Ciò che risveglia la speranza negli ammalati e soprattutto in Ambrogio e Paccoi è vedere la notte le suore polacche agire silenziose e discrete tra i letti, nonostante i divieti del comando. Loro sono il modo di rispondere al male che c’è nel mondo.
A fine febbraio 1943 i due soldati ricoverati a Leopoli possono finalmente fare ritorno a casa, non ancora completamente guariti. In Italia vengono divisi in due ospedali: Paccoi a Verona, Ambrogio a Schio. Poi ad aprile Ambrogio viene trasferito a Riccione, dove vanno a trovarlo i famigliari: prima i genitori, che gli riferiscono del ritorno di don Gnocchi dal fronte e della sua idea di costruire un istituto per i bambini mutilati, e con cui parla di Manno, che si trova ancora in Africa; poi lo stesso Manno in licenza si reca a fare visita al cugino. In maggio rientra a casa. Con i parenti profughi a casa parla spesso della guerra e della situazione in cui si trovano, la carestia, l’entrata dei russi a Stalingrado, e riceve moltissime chiamate dalle famiglie che da tempo non hanno più notizie dal fronte, soprattutto quello russo (i Russi non permettevano ai prigionieri di tenere la corrispondenza).
In seguito a un’ulteriore visita medica, ad Ambrogio viene negato il rientro in guerra, ha gravi problemi ai reni. Ricoverato a Stresa, riceve numerose visite: quella di Manno, che sta per partire per la Grecia, e Ambrogio sente che quello è l’ultimo incontro con il cugino; quella della madre, che ogni giorno fa la rassegna stampa al figlio; quella del fratello Pino, il quale grazie alle visite al fratello viene a conoscenza della realtà partigiana e diventa un partigiano. E’ inoltre nell’ospedale di Stresa che Ambrogio fa conoscenza della sua futura moglie, Fanny, alias Epifania Mayer, sua infermiera. Le sue condizioni peggiorano, lotta contro la morte. La madre, da buona cristiana, non può fare a meno di curarsi anche di tutti i malati che si trovano nella camera di Ambrogio, mentre Fanny non lascia il suo letto per un secondo. Pochi giorni prima di Natale, Ambrogio si riprende. Alcuni mesi dopo, nel 1944, l’ufficiale Riva torna a Nomana. Tenta di studiare e dare esami all’università, ma si stanca molto velocemente a causa della ferita.
La notizia del bombardamento di Dresda del 14 febbraio 1945 fa presentire ad Ambrogio la fine della guerra. Ma non sono finite le disgrazie. A Nomana arriva un reclutatore di partigiani comunisti. Nessuno pensa di denunciarlo. E’ chiaro a tutti che occorre organizzare qualcosa per contrapporsi. Così il farmacista Agazzino e Ambrogio creano il CLN a Nomana, in modo da poter disporre di una propria forza insurrezionale. Il 25 Aprile scoppia il ribaltone anche a Milano. Va presa immediatamente una decisione e Agazzino corre a Milano per rifornirsi di armi. Deve dividere le armi con i comunisti alla caserma, come contrattato. Iniziano le rappresaglie contro i fascisti, da parte dei partigiani comunisti. Mentre Ambrogio è a Milano per contrattare la liberazione di una donna presa in ostaggio dai partigiani, si rende conto che la liberazione non è una festa ma uno scatenamento di violenza.