L'isola del Paradiso

Ed. ARES
Autore:
Romano, Giuseppe



Dalla Presentazione di Giuseppe Romano

L’isola del paradiso è la seconda tappa del percorso creativo che Eugenio Corti e i suoi lettori stanno compiendo attraverso il «mondo delle immagini». Segue a distanza di due anni La terra dell’indio e prelude a un terzo e conclusivo racconto il cui titolo dovrebbe essere Catone l'antico.
Presentando a suo tempo La terra dell’indio mi ero affrettato a fare una precisazione che voglio ribadire anche qui. Vale a dire, che i libri di narrativa non hanno bisogno di presentazioni; se sono giustificati, se sono necessari (di quella necessità esistenziale che l’arte possiede, senza motivi e senza secondi fini), lo si verifica aprendo e leggendo. Era vero allora e resta vero per quest’Isola del paradiso che non teme il confronto con i continenti e gli atolli letterari di questi anni. Del resto è chiaro e ovvio che Eugenio Corti non ha bisogno di presentazioni. Chi ne volesse a ogni costo una la cerchi nelle oltre mille pagine e nelle tredici edizioni di Il cavallo rosso, pietra miliare della narrativa italiana di questi anni.
Dunque questa mia presentazione non è affatto necessaria. Resta però opportuna dato il genere inconsueto e in pratica sperimentale che l’autore ha adottato per esprimere ciò che voleva dirci. Inoltre sarà d’aiuto qualche spiegazione circa il soggetto narrativo degli ammutinati della nave Bounty e della loro vicenda singolare e tragica.
Sono i due punti – il genere e il soggetto – che affronterà questa presentazione, lasciando invece al lettore il compito di misurare il racconto e di misurarsi con esso. Semmai, egli potrà valersi di quanto espresso in queste pagine preliminari come di una bussola e di un sestante per orientarsi nella navigazione.

Veniamo al primo punto. Corti insiste nel definire questo suo lavoro un «racconto per immagini» e a ipotizzarne un utilizzo in chiave di sceneggiatura televisiva. Con questo non intende dire che si tratti di una sceneggiatura in sé (sarebbe impossibile per qualsiasi regista avvalersene senza intervenire). Piuttosto ammonisce che la componente visiva è quella prevalente nella drammaturgia del racconto, sicché il lettore farà bene ad aguzzare gli occhi per non lasciarsi sfuggire le immagini proposte.
Come già era accaduto con La terra dell’indio, al lettore si chiede in pratica di attivare nella propria immaginazione un «dramma mentale» dove spazializzare e rendere visibili i protagonisti. La scansione dialogica tipica della sceneggiatura cinematografica imprime alla narrazione il ritmo più adeguato perché ciò sia possibile. Anzi, è quasi inevitabile che accada, ed evidentemente su questo l’autore ha scommesso molto. Il lettore può giudicare in proprio se ciò sia vero, ma a me qui preme di far notare che questa scommessa è in senso stretto una scommessa stilistica. Presentando il precedente «racconto per immagini» di Corti suggerivo che in quanto scelta stilistica essa era particolarmente innovativa e adatta ai nostri tempi; a maggior ragione lo ritengo adesso, potendo portare a riprova quest’altro esempio che rispetto all’altro è addirittura più esplicito ed espressivo.

Le immagini: parliamone un po’. Siamo abituati a considerarle parte della nostra vita. Dal punto di vista naturale lo sono sempre state, ma intendo dire che negli ultimi decenni andiamo metabolizzando come «naturali» immagini che di naturale hanno poco, perché sono state ricavate in modo sostanzialmente diverso da quello tradizionale. La nostra civiltà deve fare i conti con immagini artificiali quanto a metodi produttivi, a soggetti e a canali di trasmissione, e il fatto non è senza conseguenza. Non volendo invocare questioni importanti ma troppo tecniche (rimando però a Benjamin per il profilo estetico e a McLuhan per quello delle protesi comunicative), mi fermo sulla soglia e schematizzo come segue queste considerazioni:
- Le immagini a noi visibili tramite i media sono tutte immagini di «fiction», nel senso che simulano la realtà anziché semplicemente riprodurla. Questo vale specificamente per le immagini digitali, che traducono in numeri il soggetto originale e lo rendono perfettamente e infinitamente riproducibile. Anziché un «negativo» (che è un calco elettrico e chimico dell’originale), sotto l’immagine digitale si nasconde una sequenza di cifre.
- Questo fa sì che tra il soggetto originale e la sua rappresentazione digitale non ci sia più un rapporto diretto (di ri-produzione), bensì simbolico (di simulazione). Si rende così possibile ogni sorta di intervento e manipolazione, dagli «effetti speciali» che vediamo al cinema alle raffigurazioni realistiche di situazioni e personaggi irreali. E l’attendibilità di queste simulazioni sarà più o meno elevata, e potenzialmente elevatissima, a seconda delle «risorse numeriche» dedicate. Nel mondo digitale i numeri possono tutto.
- In terzo luogo, da lungo tempo siamo abituati a considerare trasparente la mediazione degli strumenti con cui abitualmente osserviamo la «realtà delle immagini»: obiettivi fotografici, telecamere, schermi piccoli e grandi. Invece essi non ci prospettano la realtà, bensì un punto di vista (umano o meccanico) sulla realtà, una sola prospettiva fra le tante possibili.
Naturalmente a partire da qui potremmo inanellare considerazioni importanti, interessanti e pure preoccupanti sullo scarto che le immagini impongono fra noi e la realtà in cui viviamo, e sulla scarsa coscienza che di solito ne abbiamo. Uno scarto che è consistente comunque, sia nel caso in cui le immagini siano «reali», «innocenti» e «oggettive» (forse non lo sono mai), sia nel caso in cui qualcosa o qualcuno le sfrutti involontariamente o artatamente per indurci a considerare «reale», «innocente» e «oggettiva» la sua personale prospettiva, che vorrebbe fosse anche la nostra per ragioni commerciali, ideologiche o di qualsiasi altro tipo.
Tutto questo potrebbe sembrare banale da una parte e astruso dall’altra. Banale perché tutti sappiamo che la nostra è l’era dell’immagine alterata, modificata, adattata alle esigenze più svariate. Lo sappiamo e ci siamo abituati. Dall’altra parte il discorso, se supera il livello più immediato e popolare, si fa tecnico e si complica oltre la capacità media di sopportazione. E allora perché parlarne?
La risposta, perfettamente adeguata all’argomento che qui voglio trattare (che alla fin fine non sono le immagini, ma come e perché uno scrittore come Eugenio Corti si dedica alle immagini), l’ha data lo studioso canadese Derrick de Kerckhove, considerato l’erede di Marshall McLuhan. In un libro molto importante che è stato tradotto pure in Italia col titolo di Brainframes (tr. it. Baskerville, Bologna 1993), egli teorizza l’esistenza delle «psicotecnologie», vale a dire di un vero e proprio ambito intermedio che si frappone fra noi e la realtà e che consiste in quel «deposito di immagini» che tutti noi abbiamo in comune in quanto spettatori dei media. In altre parole, è vero, sì, che l’occhio della telecamera «falsifica» la realtà riprendendone soltanto una frazione; ma è pure vero che tutti noi conosciamo della realtà soltanto quello che l’occhio elettronico ci ha mostrato, e dunque in fin dei conti la realtà su cui basiamo noi stessi e le nostre relazioni non è di norma quella effettiva, bensì appunto quella mediata e «falsificata» dalla simulazione dei media. Grazie alle tecnologie e alle «psicotecnologie» che ne sono l’effetto, siamo tutti d’accordo nel considerare oggettivo quello che magari non lo è: per esempio la foto sul quotidiano che tutti abbiamo sfogliato, la sequenza nel telegiornale che tutti abbiamo visto. Su questo accordo «irreale» basiamo molte decisioni significative per la nostra vita e per l’altrui.
È importante, questo? Importantissimo sotto molti punti di vista, specie sotto quelli coerenti col discorso creativo di Corti.
- In primo luogo, perché le «psicotecnologie» confluiscono nello stesso immaginario collettivo in cui versano le loro acque i prodotti della fiction caratteristica dei nostri tempi: quella cinematografica e televisiva.
- In secondo luogo, perché a quest’ultimo genere di comunicazione e di espressione artistica siamo diventati così avvezzi da esercitare abitualmente e automaticamente la nostra competenza di spettatori (J.R.R. Tolkien avrebbe detto che con cinema e tv sospendiamo abitualmente e automaticamente la nostra «incredulità»).
- In terzo luogo - e per conseguenza di tutto quel che precede - perché il nostro «deposito delle immagini» fatica ormai a distinguere tra immagini reali, immagini simulate e immagini false.
In altre parole, vivere tra le immagini ci dice poco sulla realtà retrostante. Strano ma vero, le nostre immagini non svelano ma velano, non mostrano ma nascondono.

Dove ci porta tutto ciò? Paradossalmente, a una tematica molto antica. Possiamo addirittura considerarla il primo utilizzo sociale e culturale delle immagini. Ci porta alle metafore. Le metafore sono raffigurazioni simboliche che le civiltà adoperano per spiegare in modo semplice («con una immagine») questioni essenziali del loro modo di vivere. Sono testimonianze dell’immaginario collettivo. Per dirla con Hans Blumenberg, sono «fossili guida di uno strato arcaico del processo della curiosità teoretica» (Naufragio con spettatore, tr. it. Il Mulino, Bologna 1985, p. 116).
Una metafora azzeccata contribuisce alla sincerità della vita sociale, e per conseguenza alla sua serenità e stabilità, più di mille teorie, più di mille leggi. Dirsi «addio», per esempio, implica la significativa condivisione di un concetto di storia che va oltre la contingenza dei giorni e comprende un ruolo provvidenziale. Nella distanza tra «forza leonina» e «muscoli d’acciaio», tra «fulmineo» e «galattico», tra «Venere nera» e «bionda atomica» possiamo misurare secoli di evoluzione sociale e scientifica. La studiosa statunitense Margaret Wertheim ha dedicato pagine brillanti all’analisi di come l’insufficienza della equiparazione metaforica tra «cielo» spirituale e «cielo» astronomico, abituale nel medioevo, abbia ostacolato nei secoli successivi – a causa delle scoperte scientifiche – la considerazione «realistica» delle realtà spirituali. Se non è vero che il Cielo è in cielo, sarà forse che non c’è affatto? Acquista più peso, sotto questo profilo, la boutade sovietica di Gagarin il quale, primo uomo in orbita, asserisce che «Dio non l’ho visto». Se la metafora non basta più e nulla la rimpiazza, anche il significato sottostante perde consistenza.
Ci sono, nella storia degli uomini e dell’uomo, immagini significative che pesano per l’avvenire. Alcune le conia la vita. Di altre si incaricano uomini particolarmente illuminati, come sono gli artisti. Il racconto in effetti non è altro che la traduzione di una vicenda importante o insignificante, ma comunque privata, in un archetipo, in un’immagine: in una metafora di noi stessi e di quel che siamo. Questo e non altro ci avvicina a Ulisse, a Otello, a Frodo, a Michele Tintori.
Ritengo che nel presente tentativo di Eugenio Corti vibri la consapevolezza del bisogno che abbiamo di immagini «reali», cioè capaci di dar conto della realtà; ma non nel senso dell’attendibilità, bensì nel senso della ricchezza, della profondità umana. Corti non si accontenta di una verosimiglianza che la nostra epoca ha ormai dimostrato problematica, se non impossibile. Egli attinge a un livello più intimo, dove la verità dell’immagine può trovare conferma al di là dell’immagine, e cioè nella effettiva corrispondenza tra ciò che si mostra e ciò che è. L’immagine resta, forse, soltanto «una» prospettiva. Eppure l’autore pretende di mostrarne la verità offrendola allo spettatore senza schermi e senza artifizi.
Questo ci porta all’ultima domanda: come è possibile utilizzare le immagini senza restare impegolati nel gioco degli specchi cui sembrano vincolate? Corti ha trovato una risposta – una risposta d’artista al punto d’arrivo, ma una risposta di uomo al punto di partenza – e ce la propone. Questa risposta consiste nel reperire l’immagine nella nostra storia; nel decifrare tra le mille e centomila immagini impilate dai secoli quella rara o quell’unica in cui la verità sottostante brilla di luce esemplare. Così era per la meravigliosa e tragica avventura delle reducciones in Paraguay che dava consistenza a La terra dell’indio, così è per la vicenda del pugno di ammutinati che popola le pagine di L’isola del paradiso. Immagini, niente più. Ma immagini che, come le metafore, scavano sotto la superficie e corrispondono col vero del nostro vivere.

E veniamo al secondo punto. Perché questo tema del Bounty? Perché insistere su un soggetto così «letterario», su una trama che è già stata di tanti libri, per esempio di Jules Verne, e di tanti film, da Clark Gable a Mel Gibson? E perché farne un «racconto per immagini»?
Prima di rispondere conviene riassumerlo, questo soggetto. Si tratta di una storia realmente accaduta tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Fletcher Christian, comandante in seconda di una nave inglese, un «trasporto armato» di nome Bounty, si ribella al prepotente capitano William Bligh e lo obbliga ad abbandonare la nave a bordo di una scialuppa insieme ai membri dell’equipaggio che gli sono rimasti fedeli. L’ammutinamento non è finalizzato alla pirateria: semplicemente Christian e i suoi complici desiderano sottrarsi alla dura disciplina militare per intraprendere una vita di sogno che in parte hanno già sperimentato. Tornano infatti a Tahiti, da cui erano salpati tempo prima, e vi imbarcano le giovani donne con cui erano entrati in intimità. A bordo salgono pure alcuni uomini tahitiani. Il Bounty volgerà la prua verso un’isola deserta, Pitcairn, che diverrà il nuovo paradiso descritto ai suoi dall’idealista Christian. All’inizio la vita procede secondo le attese: matrimoni «naturali» e felici, raccolti superiori a qualsiasi aspettativa, collaborazione paritetica tra europei e indigeni, amicizia e stima reciproca. Ma poi le cose si complicano repentinamente, a tal punto che il sangue scorre a fiotti e la popolazione del «paradiso» viene decimata. Quando, molti anni dopo, una nave americana attraccherà a Pitcairn, soltanto un marinaio resterà a raccontare l’impressionante succedersi dei fatti e ad attestare, insieme alle donne e ai bambini superstiti, il prevalere devastante del male e la conclusiva rivincita del bene.
Questa è la storia. Di essa ci restano il rapporto redatto dal capitano Bligh (Mutiny on Board the Hms Bounty) e molte testimonianze dei protagonisti. Inoltre, poiché quasi subito il caso Bounty si trasformò in una leggenda, ne abbiamo un’infinità di resoconti che sfumano in un modo o nell’altro le componenti storiche.

Più tardi entrano in scena i poeti e i narratori; fra questi ultimi i più famosi sono Verne con i suoi Les révoltés de la Bounty e il più recente bestseller di Charles Nordhoff intitolato The Bounty trilogy.
Abbondante il pedigree cinematografico. Si inizia in Australia nel 1916 con Mutiny of the Bounty, protagonisti George Cross, D. L. Dalziel e Wilton Power. Gli australiani tornano alla carica nel 1933 con In the wake of the Bounty: c’è il sonoro e tra gli attori, oltre a John Warwick, si distingue un Errol Flynn all’esordio. Il film però non viene distribuito negli Stati Uniti perché frattanto (1935) Frank Lloyd ha prodotto Mutiny on the Bounty (da noi La tragedia del Bounty), con Clark Gable e Charles Laughton, che resta forse il più epico e leggendario (agli Oscar ebbe sette nominations e una statuetta, quella per il miglior film). Devono passare molti anni fino al 1962, quando un altro film tenta di introdursi nel mito, ed è un remake d’alto bordo: stesso titolo originale, Mutiny on the Bounty (in Italia lo conosciamo come Gli ammutinati del Bounty), attori del calibro di Marlon Brando, Trevor Howard e Richard Harris. Lo firma Lewis Milestone. Costa un sacco di soldi e rischia di far fallire la Mgm che lo produce; dagli Oscar ricava anch’esso sette nominations, ma nessun premio. Ultimo in ordine di tempo è il dignitoso ma non trascinante The Bounty (Il Bounty) del 1984, diretto da Roger Donaldson e interpretato da Mel Gibson, Antony Hopkins e Laurence Olivier.

La rassegna appena riportata risponde alla domanda sul perché Corti abbia scelto questo tema. Lo ha scelto proprio perché l’immagine è già solidamente formata nel nostro immaginario collettivo. Una vicenda storica che «esiste» ormai anche al livello delle immagini archetipiche.
Ma l’immagine è particolarmente interessante pure sotto il profilo storico, dato che l’ammutinamento avviene nel 1789 e i fatti si svolgono in esatta contemporaneità cronologica con la rivoluzione francese. Sotto il profilo tematico l’esordio e lo svolgersi della vicenda obbediscono all’esatta applicazione dei princìpi rivoluzionari di liberté, fraternité, egalité, e di quei miti pure rivoluzionari – la bontà dello «Stato di natura» - che Jean-Jacques Rousseau aveva diffuso pochi anni prima.
Se si considera che l’episodio del Bounty si conclude con connotati esplicitamente religiosi e cristiani, ce n’era abbastanza perché una mente agile ed esperta potesse scandagliare gli eventi e trarne un’immagine non soltanto luccicante come un fotogramma ma soprattutto luminosa come una metafora. Quella del Bounty è un’epopea dove ciascuno dei protagonisti e dei comprimari incarna le varie dimensioni individuali e sociali della vita umana, e altresì le variabili posizioni nella lotta fra bene e male. Non mancano le sorprese, che non vanno rivelate qui e tuttavia escludono dal racconto qualsiasi logica del partito preso; del resto chi ha letto Corti sa che la sua poetica cristiana non è né forzosamente ottimista né rassegnatamente fatalista.
In questa cornice, l’«immagine» del Bounty elaborata da Corti si presenta in tutta la sua forza di contemporaneità e insieme di storia, vale a dire con lo spessore di una superficie levigata che sotto nasconde metri e metri di profondità.