Paolo e i collaboratori
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Gratitudine e fiducia sono da lui riservate ai molti collaboratori, dei quali volle e dovette servirsi. I collaboratori (che l’accompagnavano e che lasciava a vigilare sulle comunità che sorgevano e che avrebbe rivisitato (cf At 14, 21-23; 15, 36; 16, 5)) furono di indubbia utilità per realizzare il suo progetto di prima evangelizzazione; esso non si limitava alle città dell’Anatolia e della Grecia, ma doveva estendersi a tutto l’Occidente conosciuto (cf Rom 1, 13-15). Di fatto, la sua è stata missione esclusivamente urbana. Soltanto le città erano raggiungibili – per mare e lungo le famose strade romane – e soltanto in città si parlava greco. Le grandi città – come Antiochia, Efeso e Corinto – furono scelte come centri missionari, dai quali irradiare l’Annuncio che suscitava comunità nei dintorni. E sappiamo che Paolo preferì località non ancora raggiunte da altri: «Mi sono però fatto un punto d’onore di annunciare il vangelo solo là dove il nome di Cristo non era ancora invocato. E questo per non costruire su fondamenta gettate da altri» (Rom 15, 20; cf 2Cor 10, 12-18). Per Paolo, già nella prima generazione cristiana, nessun popolo doveva restare estraneo all’annuncio evangelico, che avrebbe costituito il fattore decisivo di una nuova umanità, capace di vivere senza le discriminazioni socio-culturali che contrapponevano greci e barbari, pagani e giudei.
Dei molti collaboratori gli Atti e l’epistolario conservano i nomi (cf At 19, 29; Fim 23; Col 4, 10, ecc.). Non tutti hanno resistito ai ritmi estenuanti del suo lavoro apostolico, altri lo hanno lasciato proprio nei momenti in cui ne avrebbe maggiormente desiderato il sostegno (cf 2Tim 4, 9-11; Col 4, 7-17). A due di essi – Timoteo e Tito – la tradizione paolina ci ha conservato le lettere che li aiutano a svolgere bene il compito pastorale loro assegnato.
Per tutti ebbe parole di riconoscenza, di affetto, di incoraggiamento: «a Tito, mio vero figlio nella fede comune» (Tito 1, 4), a «Luca, il caro medico» (Col 4, 14).
Le sue sono lettere ardenti, lasciano trasparire un rapporto paterno-materno-fraterno. Con i suoi collaboratori e con i singoli fedeli, spesso singolarmente salutati al termine delle lettere (cf Rom 16, 1-16; 1Cor 16, 19s; Col 4, 10-18; 2Tim 4, 19-22; ecc.): «Salutate tutti i fratelli con il bacio santo» (1Tes 5, 26; 2Cor 13, 12). Tale rapporto, colmo di tenerezza è ben espresso rivolgendosi ai Filippesi: «Vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del vangelo. Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù» (Fil 1, 7s).
Sono sentimenti autentici, che richiedono corrispondenza filiale. «Il nostro cuore si è tutto aperto per voi: non siete davvero allo stretto in noi» (2Cor 6, 12); «Io parlo come a figli: rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore» (2Cor 6, 11-13).
Già abbiamo ricordato come Paolo vivesse paternamente e maternamente la sua funzione di generatore della fede nei suoi figli (cf 1Cor 4, 14s; Gal 4, 19). Paolo è totalmente partecipe delle
vicende dei Tessalonicesi e si sente «consolato dall’angoscia e tribolazione in cui eravamo per la vostra fede; ora, sì, ci sentiamo rivivere, se rimanete saldi nella fede» (1Tes 3, 8); e confida di nutrire per loro affettuosa nostalgia: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari… (1Tes 2, 7s. 10.20). Ugualmente ai Filippesi: «Miei fratelli, diletti e desiderati, mia gioia e mia corona» (Fil 4, 1). Senza trascurare consigli assai premurosi per Timoteo, «mio vero figlio nella fede» (1Tim 1, 2): «Smetti di bere soltanto acqua e prendi un po’ di vino per il tuo stomaco e per le tue frequenti indisposizioni» (1Tim 5, 23); «Nessuno disprezzi la tua giovane età» (1Tim 4, 12).
Esemplare della carità pastorale e persino commovente il modo con cui Paolo, ormai «anziano e in catene» (v. 9), rimanda al suo ricco amico Filemone uno schiavo fuggito dalla sua casa: «Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore» (Fim 10). Con questo delizioso biglietto – la lettera a Filemone consta di soli 25 versetti – Paolo esce di scena.