L'ultimo Paolo secondo Rembrandt
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Rembrandt ci introduce di colpo e in modo sorprendente nella stanza di Paolo. Forse è la casa del suo domicilio coatto a Roma, prima del martirio. Non sappiamo con certezza. Certo è che Paolo è vecchio, le sue lettere e i suoi scritti sono ammassati su un tavolo in primo piano. Un tavolo che siamo obbligati ad osservare noi, occasionali visitatori dello studio paolino. Rembrandt vuole farci incontrare come prima cosa gli scritti dell’Apostolo sapendo che solo attraverso la lettura attenta delle lettere paoline e la comprensione dell’interpretazione paolina del Mistero di Cristo dentro le Scritture, è possibile conoscere la statuaria grandezza di Saulo di Tarso.
Paolo, insomma, non può che essere capito alla luce della comunità cristiana. Egli fu il grande esegeta del mistero della Chiesa, l’aver udito Cristo identificarsi con i discepoli perseguitati lo rese profeta del mistero del Corpo Mistico.
La Chiesa è perciò il metodo con cui Cristo si comunica nel tempo e nello spazio, analogamente al fatto che Cristo è il metodo con cui Dio ha scelto di comunicarsi agli uomini per la loro salvezza(cfr Carron, Esercizi Spirituali alla Fraternità 2008, pag. 29).
Qui Rembrandt coglie Paolo seduto, seguendo il fascino che tale posa esercitava sui luministi caravaggeschi del secondo decennio del seicento. Seduto e solo: lontane le folle che lo acclamavano, lontani i discepoli e le chiese da lui fondate, lontane persino le continue persecuzioni. Qui Paolo è solo col Mistero del suo destino.
Dopo i libri, appese al muro si notano due spade, ricordo della sua antica lotta contro la “setta” cristiana, ma anche annuncio del martirio a lui prossimo. Paolo, cittadino romano, non morirà crocifisso o sbranato dalle fiere come i forestieri, lui morirà decapitato come il grande Precursore di Cristo, il Battista. Somiglianze fra san Paolo e san Giovanni Battista, del resto, non mancano: una certa rudezza di carattere e soprattutto lo spirito anticipatore e profetico, Paolo fu il grande precursore della cristianità, colui che aprì definitivamente le porte dell’alleanza in Cristo ai goim, ai gentili senza che si sottoponessero alle pratiche della legge mosaica.
Tutto questo bagaglio di grandi ideali e di grandi tensioni grava sul capo dell’ormai anziano apostolo, proprio come le due spade appese al muro.
Sotto, egli medita assorto, pare assopito, ma solo per l’occhio distratto. Se guardato a lungo e a fondo ci rivela l’oggetto della sua meditazione: Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d'aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede (Fil 1, 23-25).
La capacità di Rembrandt di rendere questa doppia tensione, l’amore a Cristo e l’amore alla Chiesa, così caratteristica di Paolo è straordinaria.
Dal lato sinistro del quadro piove una luce artificiale intensa. È quella che illumina il volto, il pensiero, quella che cade sulla spalla destra, ma lascia in ombra il braccio destro di Paolo. Impugna ancora la penna, ma appare ormai stanco. È il servo inutile che pur senza aver esaurito il mistero del Maestro sa di aver fatto tutto, almeno tutto quello che era in suo potere di fare. È ormai giunto il tempo di sciogliere le vele e approdare al porto della comunione piena e totale con Cristo, il dolce cigno della via di Damasco.
Alla destra del quadro, da una finestra nascosta, entra la luce solare. È questa luce che lascia in ombra i libri e le pergamene, ma inonda le spade e il braccio sinistro. Eccolo lì quel braccio straordinario (che forse solo ora notiamo), colto nell’atto di appoggiarsi al tavolo e far leva su di esso per balzare in piedi e partire. È il braccio del missionario, di Paolo instancabile fondatore delle chiese.
Due luci due tensioni, due braccia due amori: il desiderio di essere con Cristo e il desiderio di nuove missioni, di nuove anime da salvare. Egli potrebbe dire con Jacopone da Todi: Cristo me trae tutto tant’è bello! Eppure egli è anche tutto per l’opera di un Altro.
Questa è la grandezza e la forza del messaggio paolino. Non la diatriba infinita fra fede e opere, ma le opere della fede e l’ardente desiderio dell’Eternità, dell’unione con Cristo che rende più certo e più caro il presente.