La salvezza di Israele, suo popolo
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Il problema della salvezza d’Israele ha lacerato Paolo: « Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua» (Rom 9,1). Gli riesce difficile lasciare che sopravviva in lui l’amore per «i miei consanguinei secondo la carne» (v. 2), tanto privilegiati dal Signore, e la lucida amarezza per il rifiuto che gran parte di loro ha opposto alla salvezza in Cristo.
Degli Israeliti egli riconosce anzitutto il valore della tradizione religiosa (cf Rom 9,4): «possiedono l’adozione a figli» (Es 4, 22; Deut 7, 6), «la gloria» di Dio (Es 24, 26) che dimora in mezzo al popolo (Es 25,8; Deut 4, 7); «le alleanze» con Abramo (Es 15, 1-17; 17, 3), con Giacobbe-Israele (Gn 32, 29), con Mosé (Es 24, 7s), «la legislazione» che esprime la volontà di Dio, «il culto» reso al solo vero Dio, «le promesse» messianiche (2Sam 7, 1), l’esemplare storia dei «patriarchi», il fatto che «da essi proviene il Cristo secondo la carne».
Tuttavia Paolo non esita a ritenerli «inescusabili» (Rom 2, 1), perché hanno disobbedito alla Legge e l’hanno ritenuta non bisognosa della «giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo» (Rom 3, 22), visto che «il termine della legge è Cristo» (Rom 10,4).
Per quanto riguarda il futuro, «il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza» (Rom 10,4). Paolo constata che «l’indurimento » del cuore «di una parte di essi » (Rom 11, 25) ha coinciso con l’annuncio ai pagani: alcuni rami della «santa radice» d’Israele sono stati tagliati e al loro posto sono stati innestati i pagani (cf Rom 11, 16-19). Ma verrà tempo in cui gli israeliti «potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo buono» (v. 24). Infatti, «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (v. 29). Davvero «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia» (v. 32). L’autore della Lettera agli Ebrei dopo aver elencato la lunga serie dei padri che avevano creduto, osserverà: “Eppure tutti costoro, pur avendo ricevuto per la loro fede una buona testimonianza, non conseguirono la speranza: Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi, perché essi ottenessero la perfezione senza di noi” (11, 39s). E raccomanderà ai cristiani di perseverare, “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (12, 2).
Della Chiesa santa fanno parte i peccatori. A ragione, dunque, Paolo, iniziando o concludendo le lettere alle sue Chiese – presenza e mistero salvifico nella storia – era solito riconoscere in essa la stessa vita trinitaria e augurare che crescessero sempre più in essa: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2Cor 13, 13; cf anche Rom 1, 7, ecc.). Sono le stesse parole con le quali ancor oggi i cristiani vengono accolti nell’assemblea eucaristica, perché riconoscano il mistero ecclesiale di cui sono parte e segno.
Sicuramente a Paolo erano realisticamente note anche le “macchie” e le “rughe” (cf Ef 5, 27) della Chiesa storica, nella quale però già vive la misteriosa bellezza della Sposa e del Corpo di Cristo, che soltanto alla fine dei tempi si incontrerà con il suo Signore (cf Ap 22, 17) resa finalmente «tutta gloriosa,… santa e immacolata» (Ef 5, 27).
È; proprio questa Chiesa reale che Paolo ha amato ed esortato ad amare, come «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5, 25). Al suo sguardo di fede profonda non è sfuggita la santità già ad essa donata dall’amore di Cristo, anche se ancora velata e appesantita dagli errori dei peccatori che ne fanno parte. Per questo ad essa ha offerto il suo incondizionato servizio per edificarla e purificarla.