Annuncio paolino: lo stile pastorale
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Nell’atto di trasmettere la fede nell’evento cristiano, contenuti e metodo non possono che intrecciarsi e fondersi. Per un verso, infatti, il maestro che insegna vive in prima persona della Parola pronunciata; per altro verso, l’annuncio verbale del testimone evangelizzatore tende per sua natura al cambiamento di vita da parte dell’ascoltatore che non opponga durezza di cuore.
Osserviamo ancora che, nell’esperienza apostolica di Paolo, la progressiva conversione personale e l’esercizio della missione non si possono immaginare in rigida successione cronologica; quasi ci fosse un tempo in cui si cura esclusivamente la propria perfezione e ci si prepara all’apostolato, cui segua il tempo dell’azione missionaria; la testimonianza paolina insegna che si cresce come cristiani, facendo insieme esperienza spirituale e annuncio al mondo.
Dopo aver esposto una sintesi dei contenuti insegnati nella predicazione di Paolo, mettiamo ora in evidenza qualche tratto del suo stile pastorale, del suo metodo apostolico.
Tramite la testimonianza
«Gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» (At 22, 15). Così Anania precisa a Paolo la sua nuova vocazione, richiamandolo all’esperienza dell’incontro fatto sulla via di Damasco, quando gli era stato dato di «vedere il Giusto e di ascoltare una parola dalla sua stessa voce» (At 22, 14). A questa esperienza di incontro diretto con Cristo risorto, Paolo farà riferimento ogni volta che sarà costretto a legittimare il suo lavoro di apostolo.
Egli non si ritiene soltanto l’informatore che reca notizie religiose non ancora note; non vuole passare per il teorico competente e professionale di una nuova dottrina. Parola e vita (la sua), pensiero e attività, sentimenti personali e responsabilità delle Chiese, formano un tutto inscindibile. Più che maestro è testimone, è maestro perché testimone (cf Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n 41).
Come testimone, Paolo ha ben presente di essere strumento di cui un Altro si è voluto servire. Il suo annuncio evangelico «non si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con lo Spirito Santo e con profonda convinzione» (1Tes 1, 5); «Avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete» (1Tes 2, 13); è «come se Dio esortasse per mezzo nostro» (2Cor 5, 20). Egli insegna e scongiura in nome di Altro da sé: «Io in persona, Paolo, vi esorto per la clemenza e la bontà di Dio» (2Cor 10, 1); «Vi esorto, o fratelli, in nome della misericordia di Dio» (Rom 12, 1), o «in nome di nostro Signore Gesù Cristo» (1Cor 1, 10). E molte volte chiamerà Dio stesso a testimoniare la verità delle sue parole e del suo affetto (cf 1Tes 2, 5. 10; 2Cor 1, 23; Rom 1, 9; Fil 1, 8).
Paolo non si presenta come prigioniero del dubbio, compiacendosi in perplessità raffinate, ma con autorevolezza avvincente, motivata e difesa.
«La sua presenza fisica è debole e la parola dimessa» (2Cor 10,10) dicevano di lui gli avversari di Cristo. Lo ammetterà lui stesso: «Sono un profano nell’arte del parlare» (2Cor 11, 6). Non è dunque da attribuire ad accorgimenti retorici e a furbizie apologetiche l’efficacia del suo annuncio, ma soprattutto al coinvolgimento personale, proprio di chi si è dedicato totalmente a Cristo, dal quale nulla potrà mai separarlo (cf Rom 8, 38s).
La temperie del suo parlare e del suo sguardo (oltre che i prodigi che a volte l’accompagnano) gli giocheranno brutti scherzi: a Listri, la gente lo scambierà per Hermes, il Mercurio dei latini, portavoce degli dei, «perché era lui il più eloquente» (At 14, 12). Se l’idea di “franchezza”, di “sicurezza” (“parresia”) qualifica tutta la predicazione apostolica (cf At 4, 13. 22. 31), essa ritorna con particolare insistenza quando si tratta di Paolo, negli Atti (cf At 9, 27s; 14, 3; 19, 8; 26, 26; 28, 31) come nell’epistolario (cf 1Tes 2, 2; 2Cor 3, 12; 7, 4; Fil 1, 20; Ef 3, 12; 6, 19s).
«E se anche sono un profano nell’arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come vi abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a tutti» (2Cor 11, 6). Pur riconoscendo l’autorità dei Dodici e di Pietro, non esita a difendere la propria autorevolezza nei confronti di certi «super-apostoli» (2Cor 11, 5; 12, 11), che altro non sono che «falsi apostoli» (2Cor 11, 10).