La missione come testimonianza
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
Paolo sa bene che non vi è che un solo «vangelo» (cf Gal 1, 6-8; 2Cor 11, 4), predicato da tutti gli Apostoli (cf 1Cor 15, 11), al servizio del quale Dio ha scelto anche lui (cf Rom 1, 1; 1Cor 1, 17; Gal 1, 15s). Eppure può parlare di un «suo» vangelo (cf Rom 3, 16; 2Cor 4,3), consapevole com‘è che il suo annuncio risuona già senza vincoli culturali, sociali, antropologici (cf Gal 3, 28); e questa universalità non rappresenta un accessorio secondario e rimandabile del messaggio cristiano, ma appartiene alla stessa «verità del vangelo» (Gal 2, 5. 14).
«Schiavo di Cristo,…scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rom 1,1), non si concepisce se non in funzione della missione ricevuta: «Infatti, annunziare il vangelo non costituisce per me un motivo di vanto. Su di me incombe la forza del destino: guai a me se non annunciassi il vangelo!» (1Cor 9, 16). Se non lo facesse, si sentirebbe in colpa: «Io sono debitore ai greci e ai barbari, ai sapienti e agli incolti» (Rom 1, 14).
Da questa convinzione trae energia missionaria: «Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rom 1,16). Anzi, per esso soffre (cf Col 1, 26), lotta (Col 1, 29 e 2, 1), anche nella prigionia (cf Col 4, 3. 10. 18).
Dalla medesima convinzione – essere stato scelto se non per la prima evangelizzazione (cf 1Cor 1, 17) –, ormai ridotto in catene, trarrà la ragione di tutta la sua felicità: «Sono stato posto per la difesa del Vangelo…perché in ogni maniera Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene» (Fil 1, 16. 18).
Si può dunque affermare che per Paolo la missione è essenzialmente definita come testimonianza, cioè: soltanto la vita di chi vive di Cristo è resa capace di generare la Vita in altre sue membra.
Ne abbiamo nuova conferma in alcune espressioni giustamente rimaste famose: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno» (Fil 1, 21) e «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Nel compito che svolge è in gioco anche la certezza del suo personale destino: «Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9, 23); «So, infatti, che tutto questo servirà alla mia salvezza,…secondo la mia ardente attesa e sperando che in nulla sarò confuso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (Fil 1, 19s).
L‘annuncio evangelico può allora venir proposto da lui come imitazione, contagio vitale: «Fatevi miei imitatori!» (1Cor 4, 16); «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11, 1). Se questa provocazione è raccolta, accadrà che anche «voi, infatti, siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 3). Infatti «Cristo è la nostra vita» (Col 3, 4).
La testimonianza, come modalità imprescindibile per l‘efficacia della missione, riguarda pure la Chiesa come tale. La diffusione della vita di fede è assicurata dalla stessa vita dei cristiani che – quando è conforme al vangelo – diviene la forma più vera della Parola di Dio.
Così scrive ai Tessalonicesi: «Siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la Parola con la gioia dello Spirito santo,…così da diventare modello a tutti i credenti… Infatti, la Parola del Signore riecheggia per mezzo vostro non soltanto in Macedonia e nell‘Acaia, ma la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne. Sono loro, infatti, a parlare di noi» (1Tes 1, 5-9).
E ai cristiani della Chiesa di Corinto dirà che sono una lettera vivente, la sua e di Cristo (cf 2Cor 3, 2s).