Cap. 9 La monaca di Monza: riflessioni su un destino
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E’ inevitabile provare un immenso struggimento e una sorta di sgomento impotente quando ci si accosta alla vicenda dolorosa della monaca di Monza: tutta la sua storia è un susseguirsi di sottili e grandi ingiustizie, programmate già da quando era ancora nascosta nel ventre della madre. Lo stesso nome Gertrude nasce da un ben preciso progetto sulla sua vita.
Sapeva bene il padre quel che doveva fare di lei e l’educazione, se così la si può definire, era stata tutta funzionale allo scopo.
Proprio in questa occasione Manzoni ci aiuta a capire in modo esplicito che, quando si va contro natura, cioè contro le naturali inclinazioni di una persona, che ha il diritto alla propria libertà di scelta e specificità; quando si va contro lo scopo vero della sua vita, il risultato è sempre disastroso e certamente doloroso. Non mi soffermo sulle tecniche di persuasione più o meno occulte o sulle vergognose costrizioni cui la fanciulla era stata sottoposta anche prima che raggiungesse i sei anni, cioè prima di essere affidata per l’educazione ad un convento di suore, più o meno conniventi con il padre. Come non mi soffermo sulla quasi inconsapevole crudeltà della famiglia di Gertrude e delle suore che speravano di fare un buon acquisto per dar lustro al convento.
In realtà vicende del genere erano abbastanza frequenti nel Seicento e non è giusto giudicarle con la mentalità del nostro tempo: ma l’autore ci offre un’analisi così accurata dei sentimenti della fanciulla, oltre che delle persone che girano intorno a lei, che è ben difficile non immedesimarsi nella sua sorte infelice. Anche un adolescente dei nostri tempi, che non si trova certamente nella sua situazione, è fortemente coinvolto dal punto di vista emotivo dalla sorte di questa ragazza, perché ne percepisce la spaventosa ingiustizia e sente Gertrude come una sorella. Quindi, più che una critica al modo di gestire il patrimonio di una nobile famiglia del tempo, mi sembra interessante cercare di capire il perché del fallimento di una vita.
In realtà basta leggere i due capitoli del Manzoni che ne parlano diffusamente e non è difficile comprendere il cuore di questa ragazza assetata di vita. Ma, per non lasciare che trionfi l’emotività anche in noi lettori, c’è da chiedersi in che modo tale vicenda possa essere di aiuto e di monito per le nostre generazioni.
L’esperienza più terribile per la ragazza, paradossalmente, non sta nelle ingiuste costrizioni circa il suo destino, ma in una mancanza di vera educazione: “il sangue si porta per tutto dove si va” oppure“I parenti e l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro”, dice Manzoni, che osserva anche: “La religione, come l’avevan insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva cime un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più una religione, ma una larva come l’altre”.
Queste brevi citazioni ci offrono lo spunto per alcune considerazioni.
La prima è che non si può educare alla vita senza un’ipotesi adeguata che soddisfi il desiderio di una vera e piena realizzazione di colui che deve essere introdotto ad affrontare tutta la realtà.
In secondo luogo va notato che non si può utilizzare come criterio educativo quello più comodo per chi educa, perché l’educazione è sempre un servizio alla verità dell’altro.
Infine occorre ribadire che chi si propone di educare cristianamente un figlio o un giovane deve innanzitutto aderire ad una proposta che non è sua, ma è al di fuori delle proprie arbitrarie interpretazioni; a meno che non si voglia lasciarla allo stadio di… larva.
Comunque, date queste premesse educative che erano solo una larva – per non abbandonare la citazione –, le conseguenti reazioni dell’adolescente e della giovane non possono che essere impregnate di quel che le è stato insegnato.
E così assistiamo ad un susseguirsi di penosissime decisioni, subito dopo contraddette, proprio perché la ragazza non ha né dei principi sani da cui partire perché nessuno glieli ha insegnati, né una persona amica che la sostenga.
L’unica bussola è la propria istintività non adeguatamente educata.
C’è però nella vicenda di Gertrude adolescente un momento di verità che non deve sfuggire all’attento lettore: “Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato: ma le venne in mente che dipendeva da lei trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa…”. Povera Gertrude! Era vero il suo desiderio di vedere altri visi, sentire altre parole, avere degli amici e una gioia inaspettata confermava la verità di quel sentimento. Ma nessuno di noi è una monade: ognuno, per vivere, ha bisogno di un terreno accogliente che ne sostenga la crescita. Gertrude non aveva nulla di tutto questo.