Cap. 23 Riecco don Abbondio!
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Che figura! Il nostro don Abbondio ricompare - dopo una lunga latitanza e … per far da contrasto a due grandi, lui che è un povero curato di campagna – con un intimidito io? che si ode in mezzo alla folla degli ecclesiastici che aspettava l’esito dello strano colloquio che si protraeva tra l’Innominato e il Cardinal Federigo.
Quell’”io”? diventa “me?” accompagnato dalla sua persona, che, suo malgrado, è costretta ad uscire dall’anonimato del folto gruppo di preti.
E’ proprio sapiente il Manzoni, che, dosando magistralmente le emozioni, le esalta per contrasto. All’acme della commozione per l’intenso dialogo tra il cardinal Federigo e l’Innominato, fa seguire l’umile ricomparsa del povero don Abbondio, assolutamente incapace anche soltanto di percepire la grandezza del miracolo che si è appena compiuto a pochi metri da lui.
Sempre suo malgrado viene coinvolto nella liberazione di Lucia e con difficoltà tenta di nascondere la noia, che dico? l’affanno e l’amaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo più a tempo a scomporre un versaccio già formato nella sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa in segno d’ubbidienza. E non l’alzò che per fare un altro profondo inchino all’innominato, con un’occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani. Abbiate misericordia: parcere subjectis.
Invano il Cardinale cerca di comunicargli la commozione e la gioia per quella conversione che sa di miracoloso: Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi ed ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice né approva; guarda il cane , e non ardisce accostarglisi, per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste…
E il nostro malcapitato curato non riesce a tirar fuori dalla sua limitata visione della vita che un “Oh quanto me ne rallegro!” facendo una gran riverenza a tutt’e due in comune.
Gradevolissimo è il contrasto tra la grave preoccupazione (che volete? di più non sa provare! È costituzionalmente incapace di forti emozioni) di don Abbondio e il tumulto dei pensieri dell’Innominato, che ancora non riesce a capacitarsi dell’avvenimento grandioso che ha sconvolto il suo cuore: - cosa devo dirgli?- pensava: - devo dirgli ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che?che essendo stato finora un demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? (che differenza con la carità del Cardinal Federigo che non teme di mostrare all’Innominato che conosce bene i suoi misfatti, ma non lo condanna e lo abbraccia per quel che è!) bel complimento! Eh eh eh! In qualunque maniera io le rigiri le congratulazioni non vorrebber dir altro che questo. E sarà poi vero che sia diventato galantuomo? (povero don Abbondio! Non ha ancora imparato nei suoi sessanta anni di vita cosa significhi fidarsi!)
Ma i guai per lui sono appena iniziati: l’Innominato va a riprendere la sua carabina: - Ohi! ohi! ohi! – pensò don Abbondio: - cosa vuol farne di quell’ordigno, costui? Bel cilizio, bella disciplina da convertito!
Come chi è totalmente estraneo al dramma di una conversione, don Abbondio immagina che si tratti di un cambiamento repentino e miracoloso che investe, altrettanto repentinamente, anche le abitudini e il comportamento. Non sa il poveretto, che ha trascorso la vita a evitare complicazioni, che la conversione è qualcosa che parte dal cuore e ha radici lontane; e che l’agire ha bisogno di tempo per conformarsi alla nuova luce che ha invaso la coscienza e la volontà.
Piacevole è anche la lettura del soliloquio di don Abbondio, che , nella sua mente piccina, vede solo il problema della mula testarda che gli fa da cavalcatura e quelle nuvole che attraversano la fronte silenziosa dell’Innominato.
Ma consiglio vivamente la lettura di queste pagine sottolineando solo una breve frase (l’altro lo lascio alla buona volontà di chi vuol gustarsi un capolavoro): E’ un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano ad aver l’argento vivo addosso, e non si accontentino di esser sempre in moto loro, ma voglion tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno(…) io che non chiedo altro che d’esser lasciato vivere!