Cap. 27 Don Ferrante

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Qualche gradevole spunto di riflessione offre anche il letterato don Ferrante, non troppo fortunato consorte della nobile donna Prassede, molto inclinata a far del bene. E sì, perché con una donna come lei non doveva essere facile andar d’accordo; ma, in complesso formano una simpatica originale coppia di anziani sposi che hanno trovato il giusto equilibrio per… sopportarsi pazientemente a vicenda. Il che non è certo il massimo che si possa chiedere alla vita... ma è già qualcosa, in mancanza di meglio.
Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né d’ubbididire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora; ma lui servo, no. Si illudeva il nostro don Ferrante, abituato a vivere in mezzo a scaffali di libri polverosi, di riuscire a non essere né servo né padrone: il che è semplicemente fuori della realtà. Perché l’uomo è ontologicamente dipendente da Chi l’ha creato, e Chi l’ha creato l’ha messo in un contesto che non dipende dalle decisioni dell’uomo, ma, semplicemente esiste; ed il contesto è dato dalla realtà che è in noi e al di fuori di noi, ma che non è fatta da noi.
Ma tant’è: l’uomo riesce a credere che le sue opinioni siano vere solo perché la sua intelligenza contorta le ha immaginate; e non si preoccupa nemmeno di verificare se le sue opinioni reggono al confronto con la realtà, che generalmente è vista come un noioso ostacolo ai nostri grandiosi o modesti progetti, oppure, molto più semplicemente, ignorata. Ma anche per la politica dello struzzo alla fine arriva alla resa dei conti…
Tornando al nostro inconsapevole don Ferrante, la sua indipendenza si era ridotta ad occupare uno spazio talmente piccolo nel rapporto con la saccente moglie, che poteva vantarsi di poter negare la sua collaborazione di esperto nell’ufizio della penna, l’unico nel quale donna Prassede riconosceva la sua superiorità.
Interessante notare che quando parla di don Ferrante Manzoni non fa alcun cenno alla libertà, ma alla sua caricatura (perché la libertà era un concetto troppo grande per la mente del nostro letterato), cioè alla sua convinzione di non essere né servo, né padrone.
Ma val la pena di vivere solo per non esser né servi, né padroni?