Cap. 34 Renzo torna a Milano

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Tutto sommato per Renzo la peste è stata un utile imprevisto, che l'ha colpito ma ne è guarito e gli ha permesso di non essere più al centro delle attenzioni delle autorità, impegnate a far fronte ad un pericolo molto più reale. Può quindi tornare al suo paesello alla ricerca di Lucia, per capire meglio la faccenda del voto che i rapporti epistolari abbastanza precari non avevano adeguatamente chiarito e per dirle che lui la testa a posto non l'avrebbe messa mai: lui voleva ancora sposarla!
In paese non la trova, ma riesce a sapere che è a Milano ospite di donna Prassede. Perciò decide di recarsi a Milano.
Lo spettacolo che gli si presenta è ben diverso da quando aveva in tutta fretta lasciato la città: nessun segno d'uomini viventi; solo da una parte una colonna d'un fumo oscuro e denso, che salendo s'allargava e s'avvolgeva in ampi globi, perdendosi poi nell'aria immobile e bigia: eran vestiti, letti e altre masserizie infette che si bruciavano: e di tali tristi fiammate se ne faceva di continuo, non lì soltanto, ma in varie parti delle mura.
Anche il cielo chiuso e l'aria pesante contribuiscono ad aumentare la desolazione e l'abbandono. In quel clima sinistro vede passare un convoglio di monatti che portano via su una barella il capo dei gabellieri che era stato appena colpito alla peste.
Renzo conosce poco la città e, non sapendo orientarsi, deve rivolgersi all'unica persona che vede per strada e che, scambiandolo per un untore, si guarda bene dall'avvicinarlo.
In quella desolata solitudine, l'unica che si rivolge a lui è una giovane mamma con una nidiata di bambini che, dal terrazzo di una casa sigillata perché infetta per la morte del marito, lo supplica di informare le autorità della loro situazione dimenticata che finirà col far morire i bimbi di fame.
Renzo si tira dalle tasche due pani che aveva con sé e li mette in un cestino che la donna fa calare dall'alto del terrazzo; poi continua la sua ricerca della casa di donna Prassede.
Gli unici segni di vita in quella città abbandonata sono… i convogli dei monatti carichi di morti di peste e la provvidenziale presenza di un prete, che gli dà indicazioni utili per orientasi nella città.
Il suo camminare per le strade abbandonate è un passare di orrore in orrore, con quei monatti ornati di pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per segno d'allegria , in tanto pubblico lutto.
C'è qualcosa però in mezzo a quel trionfo della morte che interrompe l'orrore, pur mantenendo vivida la sofferenza: è il doloroso quadro della madre di Cecilia che tiene in braccio, come seduta, la sua bimba appena morta di peste e la depone sul convoglio dei monatti senza che il losco figuro incaricato di prenderne in consegna il corpicino, adornato come per una festa promessa da tanto tempo, osi sfiorare la fanciulla.
Renzo percepisce la grande dignità di quella bellezza velata e offuscata, ma non guasta, e per un momento dimentica l'orrore; lo stesso turpe monatto diventa tutto premuroso e quasi ossequioso.
Ma perché Renzo, il monatto, noi lettori restiamo così affascinati da questa donna giovane e consumata anche lei dalla peste?
Forse per il suo modo di affrontare il dolore immane di una bimba morta, di una seconda più piccola moribonda, e dell'imminenza di una sicura morte che viene affrontato con occhi che non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante: c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo.
E torniamo all'eterno mistero del dolore; al suo significato, che, solo, può offrire anche la possibilità di affrontarlo in modo integralmente umano.
La dignità di questa giovane donna così provata dalla vita, non sta innanzitutto nel modo quasi altero con cui affronta il turpe monatto. La sua dignità, la sua grandezza sta nella consapevolezza, che solo la fede può dare, del significato di quella immane sofferenza che ella accoglie con animo presente e senza ribellione, perché sa che la morte non ha l'ultima parola sulla vita.
Forse tale personaggio può sembrare fuori dal mondo; certo fuori dal mondo della cultura dominante dei nostri tempi, che non sa dare significato al dolore e non lo sa affrontare.
Però, nella narrazione dell'orrore della peste è come se avesse restituito a quell'evento terribile, che fa parte della vita, che è appunto la morte, la sua dignità e il suo significato.