De Wohl, Louis - La liberazione del gigante
BURMilano, 2002
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"La liberazione del gigante" di Louis De Wohl è un romanzo storico che presenta un grande affresco del XIII secolo incentrato sulla figura di s. Tommaso d'Aquino. In un certo senso egli ne costituisce come il vertice, una delle espressioni più emblematiche e significative, perché ne esprime lo spirito maturo. Tuttavia non bisogna dimenticare che la grandezza di Tommaso ha profondamente segnato anche i secoli a venire, basti pensare che Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica Fides et ratio così ha sottolineato l'importanza della riflessione dell'Aquinate: "Nella sua riflessione l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione". Proprio per questo la Chiesa continua ad indicare ancora oggi in Tommaso un maestro da seguire, ancor prima che per quello che ha detto per il suo modo di usare la ragione in piena armonia con la fede. Questo romanzo, pur non entrando nel merito del pensiero filosofico e teologico dell'Aquinate, ci permette di immedesimarci maggiormente con la persona di Tommaso, con il suo modo di stare di fronte alla realtà, e più in generale con lo spirito proprio del XIII secolo.
Dal romanzo emerge chiaramente come nel XIII secolo l'esperienza cristiana fosse vissuta in piena radicalità, tanto che Cristo o veniva accettato e quindi amato, o rifiutato e quindi odiato. Questa duplice possibilità lasciata alla libertà umana è straordinariamente espressa nel romanzo attraverso le figure di s. Tommaso e di Federico II. Infatti, se la vita di Tommaso esprime l'amore a Cristo sopra ogni cosa e ne è totalmente determinata, la figura di Federico II, altro grande personaggio storico particolarmente tratteggiato, (a differenza di molti altri che vengono solo rapidamente presentati: Luigi IX, Eduardo I Plantageneto, Alberto Magno, Bonaventura), rappresenta colui che affermando se stesso sopra ogni cosa, rifiuta Cristo e quindi finisce per odiare e combattere la Chiesa.
La figura di Tommaso d'Aquino
Che cosa contraddistingue la personalità di s. Tommaso? Non tanto un progetto culturale, quanto un grande amore, affermato di fronte al mondo in ogni circostanza: l'amore a Cristo, che si esplica nell'attaccamento all'ordine domenicano, movimento di riforma della Chiesa da poco sorto, e attaccamento alla Chiesa di cui l'ordine non è che un momento, una parte.
Questo amore, ad esempio, è ciò che determina la sua fermezza di fronte ai tentativi della famiglia di impedirgli di entrare a fare parte dell'ordine domenicano. Visto il rango sociale della famiglia d'Aquino per Tommaso era già pronta una carriera ecclesiastica che prevedeva l'ingresso nell'ordine benedettino e, con il tempo, la carica di abate presso la prestigiosa abbazia di Montecassino. Tuttavia, nulla valgono i tentativi della famiglia di impedire, con le buone e con le cattive, che si concretizzi la decisione di Tommaso di farsi domenicano, perché è intuita da lui come la via più adeguata per vivere fino in fondo l'esperienza di Cristo, e niente riesce a distoglierlo da tale intuizione.
È sempre l'amore a Cristo sopra ogni cosa ciò che lo fa apparire a volte come estraneo a quanto accade intorno a lui, dimentico della realtà che lo circonda. Come accade, ad esempio, nel celebre episodio del pugno scagliato sulla tavola, a seguito della conclusione di un ragionamento, in pieno ad un banchetto alla presenza di Luigi IX. Non è disprezzo per il mondo, ma la concentrazione su ciò che conta più di ogni altra cosa, l'amore a ciò che conta più di ogni altra cosa che lo porta a volte a dimenticarsi del resto. Il ragionamento verteva, infatti, sulla confutazione della posizione manichea, retaggio culturale del disastroso, per la vita della Chiesa e della società dell'epoca, fenomeno del catarismo. Ecco allora che l'amore alla verità cristiana, pericolosamente minacciata dalla tentazione dualistica manichea, viene prima di qualsiasi altra cosa, anche dei festeggiamenti a corte di un re, di un re santo come Luigi IX. Significativo che in quella circostanza la risposta di Luigi IX, il re santo, è in piena sintonia con Tommaso. Non solo a differenza di molti altri commensali non si scandalizza per lo "strano" atteggiamento del frate, ma fa provvedere perché gli sia portato quanto occorre per annotare il ragionamento, evitando così che rischi di essere perduto. Inoltre, che Tommaso non sia persona che vive fuori dalla realtà, nel romanzo è testimoniato dal fatto che egli diventa punto di riferimento fondamentale per la maggior parte delle persone che lo circondano.
Che ciò che conta più di ogni altra cosa per Tommaso sia l'amore a Cristo è confermato dall'episodio che tutte le principali biografie del santo riportano e che è presente anche in questo romanzo. Alla domanda del Crocefisso su quale ricompensa Tommaso volesse per quanto aveva bene scritto fino allora, la risposta fu: Te, Signore.
Ma anche ciò che più di ogni altra cosa segna la vita di Tommaso, cioè il suo lavoro filosofico e teologico e la sua straordinaria intelligenza sono determinati interamente dall'amore a Cristo. L'intelligenza di Tommaso è un'intelligenza interamente a servizio della verità incontrata in Cristo.
Tommaso legge Aristotele, liberandolo dalle false interpretazioni degli arabi (negazione dell'immortalità dell'anima, ma soprattutto contrapposizione ragione/fede), dimostrando una maggiore profondità, intelligenza nella lettura del pensiero aristotelico, e vede in esso un grande strumento per comprendere più in profondità la stessa esperienza cristiana (secondo l'espressione di Chesterton la riscoperta di Aristotele fu un miracolo cristiano). La liberazione del gigante è allora la liberazione della grandezza del pensiero aristotelico dalla minaccia più grande che preme sulla cristianità nel XIII secolo: la minaccia più grande infatti, non consiste tanto nel pericolo di un'invasione mussulmana, ma soprattutto nella possibilità di una sconfitta culturale, del prevalere cioè di una concezione che separi ragione e fede. Ovvero la teoria averroistica delle due verità di Sigieri di Bramante, la verità della filosofia e quella della fede: "Con Averroè si compiva la nascita della filosofia maomettana: che non era una filosofia nuova, ma una filosofia aristotelica confusa e orientalizzata. Però era pur sempre una filosofia, e conteneva sufficiente verità aristotelica per inondare di errori orientali i cervelli cristiani. Finalmente l'Islam aveva un'arma contro la fede cristiana, e quest'arma era così tagliente da costringere i nostri filosofi a una confessione spaventosa: ad ammettere che ci sono due verità, la verità della fede e la verità della filosofia, le quali non occorre concordino fra loro. Così, nelle coscienze sorsero gravi dubbi ai quali la teologia poteva opporre solo questa risposta: "Non occuparti di filosofia e tienti alla fede"". (Louis De Wohl, La liberazione del gigante, Rizzoli, Milano 2002, p. 207). Tommaso riesce invece a mostrare che esiste una piena armonia tra ragione e fede, anche se quest'ultima supera la ragione, infatti non la contraddice: "I cristiani potranno dire: "Per grazia di Dio, io credo. Molte cose della mia fede trascendono la ragione, ma nulla le contraddice"" (Ibidem, p. 208). In altri termini, la ragione conosce la verità anche se in modo non completo: "il sapere tuo e il mio sono veri, per quanto incompleti. Guardati, amico mio, dal filosofo per il quale la verità non cade nell'ambito della nostra conoscenza. Qualunque sia la sua filosofia condurrà alla rovina e al nulla" (Ibidem, p.284).
Ecco allora che Aristotele, una volta purificato dagli aspetti dell'interpretazione mussulmana in aperto contrasto con l'esperienza cristiana, può essere utile allo stesso Tommaso per mostrare come l'esperienza della realtà sia un'esperienza che rimanda necessariamente ad Atro, come l'esperienza di sé dica di una dipendenza originale: "Dio deve esistere, perché altrimenti null'altro potrebbe esistere. Difficilmente potreste dubitare della vostra esistenza: sarebbe contro il principio di non contraddizione. Se, infatti, non esisteste, come potreste dubitare di qualcosa? Voi esistete dunque, ma la vostra esistenza non è autonoma. L'avete ricevuta da genitori e antenati, dall'aria che respirate, dai cibi e dalle bevande che prendete. I fiumi hanno ricevuto anch'essi l'esistenza, e così i monti, la terra stessa e tutto il resto dell'Universo. Ora, se l'Universo intero è un sistema di ricevitori d'esistenza, ci deve essere anche un datore. E se a sua volta questo datore avesse ricevuto l'esistenza non sarebbe il datore, ma un altro di quelli che ricevono. Dunque, il primo datore deve possedere un'esistenza autonoma. Dev'essere esistenza. Questo datore noi chiamiamo Dio" (Ibidem, p. 272).
La figura di Federico II
Federico II si contrappone a S. Tommaso. La sua vita è segnata dall'odio a Cristo, da una lotta contro la Chiesa, di cui come imperatore della cristianità avrebbe dovuto essere al servizio. E' l'amore a se stesso fino a considerarsi divino che lo porta a cercare di annientare o di assoggettare tutto ciò che lo richiama ad una dipendenza da Altro. Da qui la guerra alla Chiesa e al Papa, nella misura in cui non sono disposti a sottomettersi al suo volere. Ai contemporanei appare "la più grande mente del nostro tempo", ma la ragione che la contraddistingue è una ragione che si pone in alternativa alla fede e vede nella religione solo superstizione. Tale ragione, nel romanzo viene caratterizzata come una ragione malata: una ragione cioè che non riconosce l'originaria dipendenza da Altro, dipendenza che Tommaso, utilizzando anche Aristotele, non manca di evidenziare; una ragione che diventa incapace di fidarsi; una ragione che rifiutando la religione come superstizione diventa veramente superstiziosa, come è dimostrato dal fatto che Federico II è addirittura ossessionato dalle profezie dei maghi di corte circa la sua morte. Ecco come la malattia di questa ragione emerge in un dialogo tra cavalieri all'interno del romanzo: "Quando si è raggiunta la mia età, si deve sapere avere fiducia in chi la merita. È un'arte difficile, caro cavaliere. L'ex imperatore non l'ha mai imparata, né mai la imparerà. La sua mente è malata. Egli si crede divino, e giudica gli altri solo secondo l'utilità che possono avere per lui. Succhia loro lo spirito e la forza come un vampiro. Quando pronuncia la parola fedeltà intende "paura di Federico"" (Ibidem, p. 177). Una ragione, tuttavia, che posta di fronte alla morte non può che riconoscere la propria menzogna, la falsità dell'affermazione dell'io come qualcosa di assoluto in sé, come emerge nel dialogo che Federico II ha con il suo medico in punto di morte: "Ciò che l'uomo conosce di più alto … noi lo chiamiamo Dio. Io dunque ero il tuo Dio … E ora questo Dio sta morendo. Cosa triste e dolorosa … la morte di Dio. Dici bene … io sono al bivio. Sei medico eppure non sai … che cosa sia morire. Non è … paura … è l'inizio … del vedere. Vedere … senza illusioni. Felice colui … che lo sopporta … se pure c'è chi possa sopportarlo" (Ibidem, p. 263). Una ragione che di fronte la morte non può che riconoscere e confessare il proprio errore: "Cinque anni … cinquant'anni … Puoi credere o no … ho rivissuto … tutta la mia vita. Tutto ciò che ho fatto … e pensato… e detto… mi dà un presentimento di eternità. D'altro canto … ho commesso un solo peccato: volevo essere Dio" (Ibidem, p. 264).
Un personaggio inventato
In realtà, esiste anche un terzo personaggio che è protagonista delle vicende che si svolgono nel romanzo: il cavaliere Piers Rudde. A differenza degli altri due è un personaggio inventato non è storico. Narrativamente serve innanzitutto a mettere insieme senza forzature storiche la vita di Tommaso e quella di Federico II. Tuttavia ha anche la funzione di mostrare come l'amore a Cristo che segna la vita di Tommaso non sia un qualcosa che riguarda solo la vita dei preti. Lo stesso amore di Piers per la donna amata acquista senso e consistenza solo alla luce del più grande amore per Dio, come lo stesso Tommaso indica, in un bel dialogo, rivolgendosi a Piers: ""L'uomo ama tante cose: la ricchezza, il potere, una donna. Ma se voleste dire con una sola parola che cosa l'uomo desideri in qualsiasi forma, come vi esprimereste?" "La felicità" rispose Piers dopo breve riflessione. "L'uomo vuol essere felice". "D'accordo, ma cos'è la felicità?" "Non lo so. So soltanto che cosa sarebbe per me…" "Dunque, esiste una cosa che voi desiderate più di qualunque altra." "Già, ma non l'avrò mai." [Piers sta pensando alla sua donna amata che ritiene impossibile sposare] "E se l'aveste, sareste felice?" "Certo." "Ma se l'aveste e doveste temere che vi possa essere ritolta, sareste ancora felice?" "Non credo. In ogni caso, non lo sarei interamente." "Dunque, siamo d'accordo nel ritenere che la felicità consiste nel possedere il bene desiderato, qualunque esso sia, senza timore di perderlo: è così?" "Sì." […] "Dunque, la vera felicità completa e perpetua non possiamo trovarla qui. Né potrebbe essere diversamente, perché la felicità perpetua non è che un'altra parola per indicare Dio […] Amare Dio, ecco il vero scopo dell'uomo."" (Ibidem pp. 275-276).