Cavallari, Fabio - Vivi. Storie di uomini e donne più forti della malattia
Edizioni Lindau- Curatore:
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Vale la pena vivere così? È dignitoso?
Daniela, affetta dalla Locked-in Syndrome, o Sindrome del Chiavistello, è stata per mesi erroneamente scambiata per un paziente in coma vegetativo e letteralmente lasciata sola nel suo corpo immobile, cognitivamente cosciente.
Massimiliano ha trascorso dieci anni della sua esistenza in coma. Alcuni medici lo hanno definito un «tronco morto», un vegetale senza alcuna possibilità di recupero. La sua famiglia lo ha tolto dalla lungodegenza, lo ha portato a casa, accudito come un neonato, inserito in un programma di riabilitazione. Una follia, hanno sentenziato in molti. Ma un giorno d’inverno si è risvegliato, ha sconfessato tutta la letteratura medica di riferimento, è tornato a testimoniare la sua presenza.
Bruno e Claudio sono stati colpiti dalla SLA (sclerosi laterale amiotrofica), non si muovono, non parlano. La loro salvezza, un respiratore artificiale. Entrambi amano, ascoltano la musica, vivono, vogliono vivere.
Oscar ha ventun’anni, è in coma vegetativo da quindici.
Daniela, Giulia, Egle, Massimiliano, Giovanni, Oscar, Bruno e Claudio,
malattie rare, degenerative, patologie sconosciute, condizioni invalidanti tali che se solo venissero ipotizzate a una persona nel pieno della propria efficienza fisica, condurrebbero a una sola risposta:
«No. Non voglio vivere così».
In verità non siamo in grado di ipotizzare una situazione che non ci è data.
Ogni nostro ragionamento poggia le proprie radici sul qui e ora. Impossibile fare diversamente.
Daniela, Giulia, Egle, Massimiliano, Giovanni, Oscar, Bruno, Claudio, con le loro famiglie, sono uniti come fossero fratelli e sorelle nella volontà di lottare, di riconquistare il proprio tempo, quello consumato, espropriato dal «male».
Ogni percorso, seppur individuale, impossibile da replicare,
è sostenuto da una serie di verbi comuni.
Ogni famiglia, ogni ammalato grave, terminale, incosciente,
chiede attenzione, il diritto alla cura, il rispetto della propria essenza.
E poi chiede di «stare insieme».
Come a sottolineare che la solitudine è funesta, peggio di qualsiasi patologia.
Da soli è impossibile superare lo scoramento, la fatica, l'esclusione.
Dentro la solitudine si vuole morire, si chiede la morte.
Dal libro
Vale la pena vivere così? È dignitoso?
Sono domande alle quali, noi sani, abbiamo cercato di rispondere, talvolta con serietà e giudizio, altre con superficialità e leggerezza. In ogni caso, spingendo il nostro ragionamento oltre le possibilità date.
Una vita degna di essere vissuta. Ma da quale punto di vista? Per chi?
Il dibattito attorno al confine sempre più incerto e problematico tra vita e morte si è fatto strada nel nostro paese, scomodando intellettuali, il mondo della politica e quello dei mass-media. Spesso la discussione ha fornito il pretesto per suggerire una regolamentazione legislativa in grado di governare la «dolce morte». All’attenzione dell’opinione pubblica sono giunte situazioni di uomini e di donne che hanno destato commozione, indignazione, talvolta compassione. Negli occhi di tutti sono rimaste immagini meste e voci soffocate.
La raffigurazione del sofferente, la sua richiesta esplicita o quella della famiglia, replicata all’infinito dalla macchina mediatica, hanno prodotto giudizi e prese di posizione, viziate da un difetto di forma e di sostanza.
L’aspetto emotivo, quello determinato dalla visione o dall’ascolto di esperienze «altre», distanti, in qualche modo virtuali, perché impossibili da toccare, hanno determinato un cortocircuito. Tutti noi abbiamo assistito a una rappresentazione del dolore, a una iconografia della sofferenza. In assoluta buona fede, siamo stati condotti a dissertare attraverso le coordinate che ci venivano proposte. Non si tratta di cinismo o cattiva coscienza, bensì della nostra assoluta impossibilità di ragionare tramite «ipotesi» quando discutiamo dell’elemento primario che ci contraddistingue: la vita.
Il dolore è un sentimento intimo e personale sul quale non possiamo pretendere di elaborare idee attraverso il principio del «se fosse». Anche quando assistiamo al dolore del più caro degli amici, non abbiamo la possibilità di «condividere» tale dolore, tutt’al più possiamo condividere la domanda che alberga in esso. Quando affrontiamo la sofferenza da una prospettiva «parente», «amica», esiste però un elemento che interviene a interpretare il nostro disagio. Non è più l’aspetto emotivamente sensibile, bensì il pensiero affettivo. Senza di esso gli unici appigli di cui siamo in possesso sono quelli emozionali. Da soli, per quanto legittimi e umani, non ci permettono di comprendere, di penetrare con ragione e coscienza nella dinamica dell’uomo che davanti alla vita chiede, domanda, pone un dubbio su sé stesso e sul mondo.
Ebbene noi tutti siamo indotti a riflettere attorno a questi temi attraverso il racconto che ci viene offerto dall’informazione di massa. Ogni storia, vicenda umana, in qualche modo ci piomba addosso con tutto il suo carico di straziante angoscia, senza lasciarci neppure il tempo per quella giusta ponderazione che poi produce la «buona vita».
Agli onori della cronaca – e l’affermazione è priva di alcun giudizio sulle persone e i familiari coinvolti che, in questi frangenti, sono sempre «vittime» –, sono salite le testimonianze di coloro che hanno chiesto, per sé o per altri, di «staccare la spina».
Sono rimaste nella memoria di tutti noi le situazioni più drammatiche che i «media» ci hanno proposto. Ognuno, sia chiaro, merita la giusta attenzione, lo spazio che cuore e intelletto pretendono, però non tutto finisce in quelle storie. Le altre narrazioni, quelle dove il «sì» alla vita è dominante, difficilmente catturano l’attenzione dei più. Eppure sono molte, la maggioranza.
Questo libro vuole raccontare proprio quello spaccato di realtà. Senza pregiudizi, senza un pensiero precostituito. Sono otto storie, ma potevano essere molte di più. Uomini, donne, famiglie che al cospetto di condizioni gravi, talvolta disperate, hanno deciso di lottare ogni giorno, per rivendicare il proprio diritto a vivere.
In nessuno di loro c’è un pensiero asettico, una presa di posizione dettata da un’ideologia o una risposta che trova ogni soluzione nella fede. Certo, l’elemento trascendente, quando presente, costituisce un viatico straordinario, ma in verità ognuno di loro risponde alla vita con la vita.
Dentro l’esperienza quotidiana, faticosa, dolente, amara, c’è solo la voglia di onorare il senso stesso dell’esistenza. Ognuno con una modalità differente, con il portato che la propria storia ha generato. Anche in queste storie c’è l’emozione, l’aspetto emotivamente sensibile, ma a governare ogni esperienza, a sostenere ogni lotta, c’è il pensiero affettivo.
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Le storie di Vivi possono insegnare allora a conservare quello stato di sospensione che permette a ognuno di essere prima di tutto «uomo», e solo dopo ammalato, padre o madre di una persona in gravi condizioni di salute. Non ci sono pretese salvifiche nelle parole di questo libro, ma ci sono le narrazioni, i percorsi individuali e collettivi.
Oggi più che mai è diventato un obbligo civile raccontare la vita, solo in questa maniera è possibile superare le classificazioni, le profusioni di astrattismo, le ipotesi preconfezionate. Raccontare vuol dire raccogliere, porgere, offrire una narrazione in grado di costruire una connessione sentimentale con l’altro, con chi ci siede accanto, con colui che non può parlare o respirare autonomamente.
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Scrivere queste avventure è stato un’immersione nella passione per la vita, un viaggio, anche dolente e faticoso, dentro i volti e il respiro di uomini e donne indomiti, tenaci, testardi.
Un cammino, quello compiuto tra le pieghe di queste pagine, narrato rispettando l’originalità irriducibile di ogni vissuto, che, epurato da ogni propensione prometeica, è in grado di produrre memoria, percorsi condivisi, parole pregne del significato simbolico che ogni vocabolo conserva in dono quando non è sperperato, sciupato, vilipeso.
Vivi è la realtà che non pensi, quella che rigettiamo come ipotesi, perché spaventosa, a lato rispetto al nostro metro di paragone.
Otto storie, otto vite, modi differenti di rapportarsi con il mondo, di gestire il dolore, di percorrere un cammino.
_ [...] Massimiliano, Bruno, Daniela, Claudio, Giulia, Egle, Giovanni, Oscar _ [...]
Non sono eroi che gareggiano per un premio, il riconoscimento, la platea o il plauso. Sono uomini. Soggetti in carne e ossa. Uomini e donne. Vivi. (f.c.)