Martiri della Chiesa greco cattolica ucraina
La Chiesa greco-cattolica durante la persecuzione(Portal-Credo 17 marzo 2006)
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A Leopoli nel 1946 si tenne il concilio che aveva come scopo la liquidazione della Chiesa greco - cattolica ucraina (CGCU). L’illegalità del concilio è più che evidente. Ad organizzarlo ed assicurare la presenza del clero furono gli organi della polizia segreta (NKVD). A capo del concilio non ci furono membri della gerarchia cattolica perché tutto l’episcopato era stato arrestato già da un anno prima dalle milizie del NKVD. La Chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca, indifferente a queste ed altre simili circostanze, fino ad oggi considera canoniche le decisioni prese dal concilio sebbene quelli che presero l’iniziativa di abolire la CGCU avessero riconosciuto che senza l’aiuto del NKVD non sarebbero riusciti a convertire all’ortodossia nemmeno una decina di sacerdoti cattolici. Nessuna opera di storici e neppure l’apertura degli archivi segreti hanno indotto il Patriarcato di Mosca a riconoscere la verità.
Ma vorrei far attenzione ad un problema diverso, per quanto a questo legato. Una delle dimostrazioni più evidenti che la CGCU fu soppressa attraverso la violenza è che essa non si sottomise al regime stalinista. Una gran parte del clero e tutto il monachesimo passò nelle catacombe. A questa situazione si erano già preparati. Già nel 1939, al primo arrivo dei bolscevichi nell’Ucraina occidentale, il capo della CGCU, il metropolita Andrej Sheptickij, previde l’inizio della persecuzione. In una sua lettera a Roma espresse la sua disponibilità a morire per la Chiesa. Nel 1944, ormai prossimo alla morte, previde tempi durissimi per la Chiesa. Per questo la maggior parte del fedeli della CGCU era preparata a vivere nelle catacombe. Come ricorda il vescovo della nostra Chiesa Sofron Dmiterko, ordinato in clandestinità, “essi sapevano di soffrire per la vera fede e che non la potevano rinnegare, secondo il mandato di Cristo: “Chi mi rinnegherà sarà rinnegato anche dal Padre mio che abita nei cieli”.
“Non ho mai avuto paura, ero pronto a tutto - ricorda padre Michail Terlicho - sapevo su che strada incamminarmi. Fin da quando ero ragazzo ero disposto a morire per Cristo, per la nostra Chiesa, per il nostro popolo”.
La maggior parte dei sacerdoti erano condannati per attività antisovietiche. Ma essi avrebbero potuto sfuggire alla deportazione, alla prigione, alla persecuzione se fossero stati disposti a passare all’ortodossia. Il sacerdote redentorista Nikolaj Volosjanko ricorda di essere stato trattenuto dall’assecondare questa tentazione pensando che non si sentiva di diventare un rinnegato.. Padre Ivan ricorda molto bene che per alcune notti non gli permisero di dormire; volevano spezzarlo fisicamente. Lo minacciarono di deportarlo per 25 anni se non avesse firmato di passare alla Chiesa ortodossa. Al vescovo Pavel Vasyliko il giudice istruttore aveva detto: “Il nostro paese è troppo umano, troppo umano. Bisognerebbe impiccarvi. Vi impiccheremo”.
I parenti di padre Stepan Kolomijc raccontano che gli avevano raccomandato di non andare in chiesa perché sarebbe stato arrestato (egli non aveva sottoscritto di farsi ortodosso e per questo non aveva il diritto di celebrare la Divina Liturgia). “Se questa è la volontà di Dio - aveva risposto - sarò arrestato. Se morirò per la mia fede, morirò per una causa giusta.”
Sulla strada alla deportazione, nelle prigioni e nei lager, i sacerdoti e i monaci erano ammirati dagli altri reclusi per la loro umiltà e serenità di spirito. Padre Nikolaj Kuc’ racconta di padre Poljanskij come celebrava la Divina Liturgia nel vagone durante la deportazione. “Tutti si lamentavano, piangevano, non avevano nulla da mangiare, ma lui era tranquillo. “Come fa lei a essere tranquillo? - gli chiedevano i compagni di sventura - Abbiamo dovuto abbandonare la casa, i nostri cari; non sappiamo dove siamo e dove andremo; che cosa sarà di noi?” Il padre rispondeva: “Così ha disposto il Signore, e Lui sa dove ci condurranno. Se speriamo in Dio tutto riuscirà per il nostro bene.”
Leggendo le testimonianze di sacerdoti di diverse età, giungi a concludere che era proprio la fiducia nella volontà di Dio ad infondere in loro la certezza che Dio non avrebbe permesso prove superiori alle loro forze. A renderli poi benevoli era la responsabilità per le anime loro affidate, la preoccupazione di offrire loro il pane spirituale.
La celebrazione della Divina Liturgia nei lager merita una particolare attenzione. Padre Vladimir Margitin celebrò la sua prima Divina Liturgia sul tavolato di ferro di una sega circolare. Spesso anche gli ortodossi si confessavano e facevano la S. Comunione dai greco cattolici.
Padre Ivan Lelekach ricorda come celebrarono la Pasqua del 1948 in carcere. Quando incominciarono a cantare “Cristo è risorto dai morti…” i prigionieri non seppero trattenere le lacrime. La guardia del carcere all’udire il canto aprì la porta della cella e invitò i cantori a cantare più forte affinché potessero udire anche gli altri detenuti, così tutto il carcere risuonò del canto pasquale. Esempi di così incomprensibile ed inaspettato affiatamento fra prigionieri e guardie non furono pochi.
Le celebrazioni festive e gli incontri rafforzavano le comunità cristiane clandestine dei lager. I sacerdoti organizzavano corsi di catechismo, incontri e lezioni. Alla vigilia di una grande festa nella baracca di un lager si erano riuniti sei sacerdoti. Non c’era nulla da mangiare, ma regnava un’atmosfera familiare e festosa. Intervenne anche un giovane: “Siamo giunti fino a qui assieme ai sacerdoti. Abbiamo seguito il cammino indicato dalla nostra Chiesa. Siateci nostra guida anche per il futuro”. Rispose un sacerdote: “In patria eravamo con il nostro popolo: Ora siamo con voi. Non vi abbandoneremo. Continueremo a pregare perché Dio ci conceda la grazia di sopportare tutte le nostre fatiche e poter un giorno ritornare alle nostre famiglie, alle nostre terre, alla nostra casa.”
Perché i Galiziani erano disposti a soffrire per la propria Chiesa? Perché appunto era la propria. Durante tanti secoli di non libertà li aveva uniti, era alla testa della rinascita nazionale. Quale chiesa oggi avrebbe potuto radunare nello spazio post sovietico un convegno di 100.000 giovani, senza alcuna organizzazione, invitando semplicemente i giovani a giurare la propria fedeltà a Cristo. Il metropolita Andrej Sheptickij, ormai invalido, era riuscito a svolgere questo congresso nel 1933. Non c’era quindi di meravigliarsi che in seguito la gioventù, affiatata dal sentimento nazionale e religioso, assieme alla vecchia generazione, fosse stata pronta da opporre resistenza al potere sovietico, a loro fisicamente e idealmente estraneo, ed alla Chiesa ad esso legata.
Né il potere comunista, né la Chiesa ortodossa potevano capire alla fine del 1980 da dove provenisse un così grande numero di greco cattolici, dal momento che nel 1946 si erano convinti che la Chiesa greco cattolica ucraina era scomparsa per sempre. Inoltre una parte considerevole di sacerdoti greco cattolici che erano passati sotto la giurisdizione della Chiesa ortodossa russa, per molto tempo avevano conservato la loro fedeltà alle vecchie tradizioni del rito e, celebrando segretamente la Divina Liturgia, ricordavano il Papa di Roma e non il Patriarca di Mosca. Mosca aveva chiuso gli occhi sulle peculiarità del rito delle parrocchie ad essa sottomesse nella regione della Ucraina occidentale, anche perché queste parrocchie costituivano praticamente la metà di tute le parrocchie della Chiesa ortodossa di Mosca e contavano più della metà dei suoi fedeli.
Val la pena riconoscere la propria sconfitta. Ma una più grande sconfitta subirono i bolscevichi e la Chiesa ortodossa russa nel 1945 - 1946. Essi tentarono di liquidare la Chiesa greco cattolica ucraina, ma in realtà consolidarono l’unione dei suoi fedeli e ‘donarono’ ad essa nuovi martire per la fede. Come è ben noto il sangue dei martiri fa crescere la Chiesa.