La vita religiosa all’interno del monastero di S. Margherita
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Attraverso l’esame del “caso De Leyva,” si ha uno spaccato di quella che era la società nella Monza di allora. In questo “caso” - che fece scalpore e richiese l’intervento delle maggiori autorità civili e religiose, sia per il fatto in sé, sia, soprattutto, per i nomi dei protagonisti - sono, infatti, implicate persone appartenenti ad ogni stato di vita e livello culturale: dal nobile al popolano, dal laico al religioso, dal Cardinale al semplice sacerdote, non vi è figura sociale che non sia presente.
Dicevamo che, tanto il Cardinale quanto il governatore milanese, furono mossi ad interessarsi dell’accaduto, più per l’importanza delle casate implicate che per la cosa in sé, poiché, come ci informa Attilio Agnoletto, di “simili fattacci ve n’erano stati in passato, ne avvenivano in quei tempi e ve ne saranno anche dopo”. Perciò fu proprio il fatto che la protagonista di questa “dubbia vicenda”, fosse una De Leyva - appartenente cioè alla nobile casata spagnola feudataria del borgo – a far sì che, di quanto successo nel Monastero monzese di S. Margherita, se ne interessasse direttamente il cardinal Borromeo (intervenendo in prima persona e spingendo il Vicario criminale ad emettere una sentenza “esemplare”) e, di conseguenza, a far sì che il “fatto” divenisse un “caso” e di esso se ne interessasse ampiamente “l’opinione pubblica” del tempo e, due secoli dopo, un grande Autore quale fu A. Manzoni, il quale “immortalò” la storia di sr. Virginia, nelle stupende pagine che a lei dedicò nei suoi Promessi Sposi.
Dall’autodifesa che sr. Virginia fa di se stessa durante il processo (tutta imperniata sul presunto maleficio di cui sostiene di essere stata vittima), veniamo a conoscere non solo qual era la mentalità dell’epoca, ma anche qual era il “clima spirituale” che regnava nel monastero della Signora.
“Hora mi si accrebbe questo pensiero - dice sr. Virginia - che questi fossero malefitii che mi fossero stati fatti perché mi sentii venire male alla bocca dello stomaco et un tremore nella vita… si sentirno rumori grandissimi per il monastero… et alle volte mi era levato il piumazzo di sotto la testa”.
Non c’è da stupirsi se ella, in fase processuale, è convinta di potersi discolpare (esimendosi, quindi, da ogni “responsabilità morale”, nei confronti di quanto accaduto e commesso) sostenendo la semplice tesi del maleficio diabolico. Se nessun tribunale odierno prenderebbe in seria considerazione una tale linea di difesa, così non era nel XVII secolo, dove la superstizione e le diverse credenze sulla potenza della magia, intessevano, ove più ove meno, il substrato culturale di ogni ceto sociale.
“Lo stesso arcivescovo Federico - scrive Agnoletto – non seppe sottrarsi al fascino di talune credenze del tempo: lui, umanista e colto filologo, non sa prendere le debite distanze dalla demonologia”.
Anche la spiritualità di sr. Virginia, dunque, come quella dell’ambiente in cui vive, è formata da un mix di pietà popolare, superstizione e credenze varie circa l’influenza diabolica.
C’è, poi, da tener presente che sr. Virginia, anche se di estrazione nobile e certamente non illetterata, in monastero, si trova a vivere in un contesto sociale variegato, dove accanto a suore provenienti dall’aristocrazia “colta” (cioè influenzata dalle idee umanistiche), ve ne erano molte altre provenienti dai ceti popolari (sensibilissimi alla mentalità magico-scaramantica imperante allora soprattutto nelle campagne), in un habitat, cioè che, di tale credenze superstiziose, è notevolmente intriso.
Inoltre, lo stesso Monastero di S. Margherita, non era esente da “strani precedenti”.
“Dopo la prima metà del 1500 - asserisce Mario Mazzucchelli - misteriosi e strani fatti avvengono in questo convento, sì da richiedere l’intervento di S. Carlo Borromeo. «Un folletto burlone – ci racconta il Ripamonti nella sua storia ecclesiastica – si divertiva a far disperare, ora ridendo smascellato, ora levando di sopra il fuoco le vivande, ora scomparendo e rubando i veli alle monache; quando erano a letto le ragazze or rotolandole or avvolgendone il capo tra le coltri, e mentre lavoravano le suore rubandone gli aghi e le spola, e ve n’era alcuna che il folletto pareva inseguire più ostinato delle altre. Ma il Cardinale liberò il convento da quel diavolezzo con il benedirlo». Occorrerà tener sempre presenti questi antefatti di fantasmi… perché a suo tempo sia l’Osio come il prete Arrigone non mancheranno d’approfittare della paura ancor diffusa tra le suore, per cercar di soddisfare le loro brame disoneste, turbando e impaurendo le credule religiose più che mai sensibili a questi fenomeni, definiti oggi metapsichici”.
Non stupisce, allora, che la stessa Madre Francesca Imbersaga, donna di provato equilibrio umano, si lasci influenzare da “certi timori”, come asserisce lei stessa nello svolgersi del suo interrogatorio: “Doppo la cosa del cadenazzo (era sto trovato aperto il catenaccio della porta della chiesa) - dice - … occorse una notte che havendo io havuto paura per queste cose, feci venir a dormir meco suor Vittoria conversa”.
Altro dato da tener presente è che la vita religiosa, entro le sacre mura del Monastero monzese, risente pesantemente, oltre che della mentalità corrente, inficiata di creduloneria e superstizione, anche del generale decadimento della vita religiosa che, a cavallo tra la fine del ’500 e gli inizi del ’600, colpisce i monasteri in genere.
Enrico Cattaneo ben evidenzia come “La clausura non era affatto rigida e ne è prova il fatto che donne maritate dell’aristocrazia più alta, talvolta stufe della loro vita anche se invidiata da molte, lasciavano sposo e figli e si ritiravano in un monastero per un periodo più o meno lungo, per ritemprarsi - dicevano - nella vita religiosa. Evidentemente portavano con sé una parte della servitù… procurando gravi disagi alla vita religiosa del monastero. L’Autorità ecclesiastica era a conoscenza di tali abusi ed emanava editti che, con tutta naturalezza, non erano tenuti in alcun conto”.
A tale decadimento morale, si tentava di porre un freno anche attraverso la diffusione di libri e “scritti edificanti” sull’argomento. Nel 1607, ad esempio, viene stampato e distribuito Il ritratto della perfetta monaca, una specie di locandina che ogni monaca avrebbe dovuto tenere presso di sé per confrontarvisi e conformarvisi “procurando con ogni studio di rassomigliargli”. L’iniziativa, però, non ottenne grandi risultati e la vita nei chiostri continuò ad essere, se non ovunque almeno “in genere”, “tutt’altro che morigerata” e tale rimase per molto tempo ancora. Ne è una prova la raccomandazione fatta nel 1672 (perciò quasi 70 anni dopo “i fatti da noi presi in considerazione”) dal Card. Litta che ammoniva le monache affinché “non dijno mazzi di fiori alli Sacerdoti, li quali celebrino nelle loro chiese, che non si faccino rappresentazioni, anche spirituali, ò comedie in Parlatorio, né alla Porta, né alcuna Monaca muti abito, ò cinga armi in tempo di Carnevale, come tant’altre volte s’è comandato”.
Il perdurare di un generale lassismo, che come abbiamo visto, non risparmiò il Monastero monzese di S. Margherita nell’epoca in cui vi visse la nostra Monaca, non si arrestò neppure dopo il clamoroso caso giudiziario che lo vide “teatro di sì scabrosa vicenda”. Leggiamo, infatti, nella dichiarazione rilasciata da un “Visitatore canonico”, in data 1693, che “Essendo pervenuta alla notizia della nostra personale visita fatta del V. Monastero di Santa Margherita di Monza, che nel parlatorio piccolo a mano destra nell’entrare in chiesa nel quale vi è il luogo del Confessionario (è il famoso “parlatorio del confessore”, più volte citato durante il processo dalle varie monache imputate, nel quale si erano consumati sia gli inizi della relazione di sr. Virginia e Gio Paolo, sia la relazione di sr. Candida con Prete Paolo) in occasione de forestieri vi si mette il letto pel comodo de medesimi forestieri; parendoci simile introduzione molto inconveniente, e contra la decenza di detto luogo, ed intendendo noi di levarle abuso che può essere di pregiudicio alla religiosa modestia: ordiniamo, che in avvenire più non si ponga indetto parlatorio letto di sorta veruna, né che in esso di notte tempo si fermi persona di qualsivoglia stato, condizione e sesso; al che saranno tenute la R. M. Priora, et altre superiore d’invigilare; et in caso di contraventione, overo di permissione; quella monaca che controverrà, o quella delle superiore che lo permetterà saranno esemplarmente corrette. In oltre si ordina alle portinaie, overo quelle, alle quali saranno consegnate le chiavi tanto alla porta comune come quella della porta del carro, alla sera al segno dell’Ave Maria della Chiesa Maggiore di Monza, siano tenute consegnarle alla R. M. Priora, per riceverle poi alla mattina susseguente; con espressa comissione di non permettere che le monache stiano alle dette porte sedendo e discorrendo con Homini, incaricando non solo alle dette portinaie, ma alla R. M. P. l’esecuzione dell’ordine presente”.