La Monaca di Monza manzoniana: ingresso e vita in monastero
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Immediatamente viene fissato il giorno per il colloquio e la richiesta ufficiale presso il monastero in cui ella dovrà entrare e così, Gertrude si trova dinanzi alla Badessa a “balbettare”: “Son qui...,” ma si interrompe poiché, come nota il Manzoni con grande maestria e finezza psicologica, “al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, …Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un’aria di compassione e di malizia insieme... Quella vista, risvegliando più vivi nell’animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po’ di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: - son qui a chiedere d’esser ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente”.
La farsa, sebbene tutti sappiano che quella di Gertrude non è una “vocazione sincera”, continua e
sebbene “La badessa rispose subito, che… le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza de’ superiori… Gertrude, conoscendo i sentimenti che s’avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa risposta”
A questo punto la finzione assume i toni tragici della menzogna più spudorata poiché “la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l’attendeva”.
Manzoni riporta poi il colloquio, puramente formale e basato su sottintesi e connivenze antiche, tra il padre di Gertrude e la Madre Superiora la quale “Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, - signor principe, - disse: - per ubbidire alle regole... per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso... pure devo dirle... che, ogni volta che una figlia chiede d’essere ammessa a vestir l’abito,... la superiora, quale io sono indegnamente,... è obbligata d’avvertire i genitori... che se, per caso... forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà... - Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo giusto... Ma lei non può dubitare... - Oh! pensi, signor principe,... ho parlato per obbligo preciso,... del resto... - Certo, certo, madre badessa. Barattate queste poche parole, i due interlocutori s’inchinarono vicendevolmente, e si separarono, come se a tutt’e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia”.
Dopo l’adempimento delle ulteriori “norme ecclesiastiche, “Il capitolo si tenne… e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c’era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre”.
Gertrude trascorre la sua vita monastica tra “un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti. … Rimasticava quell’amaro passato, … accusava sé di dappocaggine, altri di tirannia e di perfidia; e si rodeva”.
La sua vita tra le mura claustrali, per quanto infelice, non è priva di alcuni “aspetti” che a Gertrude tornano graditi, alleviando così, seppure solo momentaneamente e superficialmente, il senso di oppressione, ma si potrebbe anche dire di semi disperazione, che attanagliava il suo cuore. Il Manzoni, infatti, ci informa che “Qualche consolazione le pareva talvolta di trovar nel comandare, nell’esser corteggiata in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar la signora; ma quali consolazioni! Il cuore, trovandosene così poco appagato, avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura quell’altre” perciò, Gertrude, irretita dalla gloria terrena e dal lustro della sua fastosa condizione nobiliare, ne resta priva, condannandosi così da sé medesima, a un atroce quanto inutile e dannoso martirio interiore.
Inoltre, “La vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era odiosa …e le pagava con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti”, ma “A quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perché il principe aveva ben voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro; ma ottenuto l’intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri pretendesse d’aver ragione contro il suo sangue: e ogni po’ di rumore che avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione, o cambiar per avventura il protettore in nemico”. Perciò Gertrude, sia per le monache che per le persone esterne, è “la Signora” e come tale viene trattata: ogni suo comportamento “bisbetico” è sopportato e “Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, … Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose”.
Il Manzoni, a questo punto, nella stesura definitiva de I Promessi Sposi, dopo aver fatto un breve e fugace accenno al comportamento successivo di Gertrude, e lasciando sottinteso l’omicidio della conversa, tronca la narrazione della storia.
Ferruccio Ulivi commenta l’espressione manzoniana «La sventurata rispose» paragonandola al dantesco «Quel giorno più non vi leggemmo avante» e, attribuendole lo stesso tragico ed intenso significato ed esaltando la densità di tanto concise quanto “letterariamente felici” espressioni, scrive: “È, anche nel testo manzoniano, una pietra calata senza rumore su un simbolico avello, e nello sfondo un’ombra scura: di presagio, di trattenuta pietà”.
Umberto Colombo nota inoltre che, allorché “«La sventurata rispose»: la lotta è cessata: Gertrude non ha più nulla da mostrare del suo “essere”: inizia il suo “non essere” più: e Manzoni s’arresta su quel culmine che, se oltrepassato, diverrebbe inevitabile discesa nella cronaca, tradimento della “storia”, unica e vera, in cui i problemi sono affrontati trascendendoli.
D’altra parte, lo stesso Manzoni, nella Lettre a M C scriveva: “Quando la lotta morale è terminata, quando la coscienza è vinta e l’uomo deve superare soltanto resistenze poste fuori di lui, è forse impossibile farne uno spettacolo interessante…”.
Il resto, come si suol dire, “è storia”. Chiudiamo dunque, “la parentesi” che avevamo aperto sulla Gertrude manzoniana, e torniamo alla storia reale di sr. Virginia Maria.