L’infanzia di Marianna De Leyva, la Monaca di Monza

Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. (Salmo 138,15)
Fonte:
CulturaCattolica.it


Di fronte alle vicende esistenziali di Marianna De Leyva, meglio conosciuta come “la monaca di Monza”, viene, inizialmente spontaneo chiedersi se, a determinare la triste esistenza di sr. Virginia, non influì (almeno in parte) anche la sua condizione storica e sociale.
Infatti, è vero che “È uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all’uomo che ricorra ad essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell’animo” e che “Quegli stesso, che per violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s’è posto in una via falsa può ad ogni momento approfittare di questi beneficj. Poiché, se la via ch’egli ha intrapresa è… difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente, soave e deliziosa” e che quindi “Con quest’ajuto Geltrude a malgrado della perfidia altrui, e dei suoi errori d’ogni genere avrebbe potuto divenire una monaca santa, e contenta” (Manzoni: Fermo e Lucia). Ma è vero anche che, il contesto sociale in cui visse fin dall’infanzia, non solo non le fu di alcun aiuto per poter giungere a tale risoluzione, ma bensì la orientò in tutt’altra direzione.
Ma poiché il Signore sa scrivere diritto anche sulle righe storte, come vedremo alla fine, tra gli “esempj… di donne che strascinate al chiostro con l’arte e con la forza, e dopo d’essersi per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure, vi trovarono la rassegnazione e la pace” (Manzoni: Fermo e Lucia) possiamo annoverare anche la nostra sr. Virginia De Leyva.
Vediamo, allora, la sua storia.
Marianna, nasce nel 1575, da don Martino De Leyva e da donna Virginia Marino (che all’epoca del matrimonio con don Martino, era vedova con cinque figli). Il matrimonio non fu, per don Martino, privo di interessanti risvolti economici. Donna Virginia, infatti, era figlia, nonché erede, di uno dei più facoltosi uomini di Milano, il banchiere Tommaso Marino egli accordi matrimoniali stabilirono che Virginia avrebbe portato in dote 50.000 scudi (che furono poi commutati nel possesso di buona parte di palazzo Marino – una “quota” di valore equivalente se non superiore alla cifra pattuita. Ciò permise a don Martino di poter aspirare, a cariche di prestigio (cosa per la quale erano necessari molti soldi).
Marianna, prima ed unica figlia della coppia, nasce l’anno successivo al matrimonio.
La madre muore di peste quando Marianna ha circa un anno. Prima di morire ella fa testamento a favore di Marianna e Marco Pio (il maggiore dei 5 figli nati dal suo primo matrimonio) lasciandoli eredi al 50%. Il testamento è immediatamente impugnato dalle sorelle di Marco Pio (qualcuno sostiene anche dallo stesso don Martino) che chiedono un inventario dei beni.
La causa riguardante l’eredità Marino prosegue e nel 1580, il padre di Marianna accetta un compromesso con le sorelle di Marco Pio: di 12 parti dell’eredità, 5 vanno a Martino e alla figlia, 7 ai figli di primo letto. Già questo si può ben considerare “un furto” nei confronti della piccola Marianna; ma il padre non si ferma qui.
Secondo il racconto del Manzoni, Gertrude è destinata al chiostro fin dalla nascita. Questo non sembra, invece, essere stato il destino iniziale di Marianna. Prova di ciò è una lettera del padre (del 1686) in cui egli parla della dote di Marianna, riguardo ad un eventuale matrimonio, che dovrebbe ammontare a 7000 ducati, pari a 33860 lire imperiali).
Con tutta probabilità, il “cambiamento di prospettiva” avviene nel 1688 quando il padre si risposa con una nobildonna spagnola -Anna Viquez De Moncada- e Marianna diventa “scomoda” per don Martino (sia per quanto riguarda la sua nuova situazione familiare che, forse soprattutto, per le sue mire “carrieristiche” e… “pecuniarie”). Ecco allora la decisione di destinarla al chiostro (dotandola di una dote di 6000 lire imperiali: l’ulteriore “furto pecuniario” perpetrato dal padre ai danni della figlia è dunque, apparentemente, di 27860… in realtà totale in quanto il padre non verserà nemmeno questa cifra al notaio cui avrebbe, stando agli accordi, dovuto consegnarla in deposito). Mariana entra dunque in monastero con una promessa di dote ma “ereditando”, in realtà, solo il nome della sua illustre casata (come il Manzoni stesso, nel Fermo e Lucia, farà laconicamente e amaramente dire a Geltrude: “… io non ho da essi ereditato che il nome…”).
Anche se inizialmente il destino di Marianna non combaciava con quello della Geltrude manzoniana, non molto difforme doveva essere il padre di Marianna da quello di manzoniana memoria di cui Manzoni ci fornisce una “superba descrizione” nel Fermo e Lucia.
Scrive infatti il nostro autore: “Il Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle sue ricchezze… superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso;… erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione”.
In questa ottica va vista anche l’educazione religiosa che Geltrude (e quindi anche la nostra Marianna) dovette ricevere.
Marianna trascorre i primi anni a Palazzo Marino, nella più totale assenza degli affetti familiari, affidata alle cure di una balia con la “sovrintendenza” della zia paterna, donna Marianna De Leyva Soncino, donna terribile e di una religiosità oltremodo bigotta quanto autoritaria (basti dire che obbligò un figlio a divenire Carmelitano e, in punto di morte fece giurare al marito di abbandonare tutto e tutti per farsi cappuccino, a prendere il nome da religioso di Ambrogio e a recarsi in Marocco e in Algeria a predicare il Vangelo, nelle terre di missione, ai “miscredenti” e che rifiutò di allevare direttamente lei la nipote, per il solo motivo che, avendo ella solo figli maschi, non riteneva “cosa moralmente accettabile” che una fanciulla, per quanto infante crescesse “in promiscuità” con i suoi figli).
Ma qual’era la “religione” insegnata a Marianna?
Sempre il Manzoni, parlando di Geltrude (ma le medesime considerazioni valgono appieno anche per Marianna De Leyva) ci informa, poi, che: “quanto alla Religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo,… non era stato mai istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto era stato nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione i parenti di Geltrude l’avevano educata all’orgoglio, a quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni. Il padre principalmente,… si era studiato di far nascere nel suo cuore quello della potenza e del dominio claustrale”.
La piccola Marianna cresce in un clima in cui la Religione e la fede sono viste e vissute come una serie infinita di formalistiche pratiche, di consuetudini e precetti morali e sociali che si intersecano ed influiscono “tout court”. Il rapporto con Dio è dunque freddo, impersonale e “distanziato”. La “Ragion di Stato” (ovvero i doveri del censo) è il cardine portante attorno al quale Marianna vede ruotare tutta l’esistenza della sua blasonata famiglia.
Date queste “basi” educative, lo sviluppo della costruzione della coscienza religiosa della nostra fanciulla non potrà dunque che essere precario e soggetto all’influenza dei “molti venti… ed eventi”.