Santa Caterina da Siena
Il Per-Corso e i percorsi.Schede di revisione di letteratura italiana ed europea
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
Fra gli scrittori italiani del '300 vi è una donna che non sapeva scrivere: santa Caterina da Siena. Attraverso il Dialogo della Divina Provvidenza e soprattutto le 381 Lettere che ci sono rimaste (che ella dettava ai segretari, con impressionante velocità, senza confondersi, spesso tre o quattro contemporaneamente), la sua prosa incisiva e appassionata ha fatto scuola, così da far occupare a questa donna illetterata un posto non piccolo nella storia delle nostre Lettere.
Vita e attività
Caterina era nata nel 1347, una quarantina d'anni dopo Petrarca e un'ottantina dopo Dante, ventiquattresima dei venticinque figli del tintore Jacopo Benincasa e di monna Lapa.
Era quello un tempo d'angoscia per l'intera cristianità: scorrerie di milizie mercenarie, assoldate dai diversi signori, in Italia, caos in Germania, grave crisi nell'impero d'oriente pressato dai Turchi, guerra tra Francia e Inghilterra; e proprio in quel 1347, dopo le carestie e le catastrofi naturali, lo scoppio della «peste nera», che portò alla tomba più di un terzo della popolazione europea (solo a Siena si passò da circa ottantamila a quindicimila abitanti).
Anche la Chiesa conosceva una grave crisi, dato che - com'aveva scritto Dante - «s'era maritata al regno di Francia»: ormai da quarant'anni il papa era assente da Roma e dimorava ad Avignone, in una specie di dorata cattività babilonese.
Caterina spese tutte le proprie energie per riformare la Chiesa e alleviare i dolori che l'inimicizia portava nel mondo. Ciò non accadde però a seguito di uno sforzo generoso o di un'acuta analisi della situazione: la sua missione fu totalmente determinata dalla grazia della vocazione, di cui fu fatta oggetto fin da bambina. Scrive il teologo ed agiografo Antonio Sicari: «Tutti sanno, con certezza, che l'infanzia di Caterina è stata irrimediabilmente segnata da una visione di Cristo, dal cui cuore esce un raggio luminoso che la raggiunge e la ferisce».
Così, a sette anni, ella fa spontaneamente un irrevocabile voto di verginità (cioè di amore esclusivo a Cristo); nella prima adolescenza si taglia i lunghi capelli, diventando sulla scia di santa Chiara «una fanciulla tonduta», visibilmente consacrata.
Quando i genitori, per stornarla dalla vocazione monacale, la costringono a pesanti lavori domestici e le tolgono quella vera e propria «cella» che era la sua stanzetta, Caterina «fabbricò nell'anima sua una cella interiore dalla quale imparò a non uscire mai».
Contemplazione e azione
A sedici anni, avendo convinto anche i genitori, Caterina entrò fra le terziarie domenicane, optando per una vita contemplativa-attiva, che la vide operosissima nel lebbrosario e nei numerosi ospedali di Siena.
Attorno a lei si costituisce pian piano la «bella brigata»: artigiani e professionisti, poeti e pittori, religiosi e laici, nobildonne e popolane. Un vero e proprio «movimento» nel quale tutti, contagiati da Caterina (che essi chiamano «mamma»), imparano un amore totale per Cristo e per la Chiesa. «Tra tutti si discute di teologia e di mistica, si legge la Divina Commedia e si studia san Tommaso d'Aquino» (Sicari); negli anni in cui Petrarca cominciava a pilotare la cultura europea in direzione opposta, permane questa sacca di resistenza in cui ci si aiuta a «prendere ragione» della fede e della speranza.
A ben vedere è questa una costante nella storia della Chiesa. Era già accaduto negli anni bui in cui le invasioni barbariche avevano cominciato a sgretolare l'impero romano: «Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l'Imperium romano e smisero d'identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale Imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all'epoca incipiente di barbarie e di oscurità» (Alasdair Macintyre).
Lo stesso è accaduto in altri tornanti decisivi della storia, attraverso il movimento cluniacense e cistercense, l'ordine domenicano e francescano, e, dopo la «bella brigata» di Caterina, la Compagnia di Gesù attorno a Ignazio, la «società dell'allegria» attorno a don Bosco e l'attuale grande fioritura di Movimenti ecclesiali.
«Sposa di Cristo»
All'età di vent'anni Caterina inizia la sua missione pubblica a seguito di un evento decisivo. Una sera di carnevale del 1367 lei continuava a pregare incessantemente Gesù: «Sposami nella fede!». «Ed ecco apparirle il Signore che le dice: "Ora che gli altri si divertono io stabilisco di celebrare con te la festa dell'anima tua". Improvvisamente la corte del cielo, con i Santi che Caterina più ama, è lì presente, come al cadere di un velo: Maria, la Vergine Madre, prende la mano della fanciulla e la unisce a quella del divin Figlio. Gesù le mette al dito un anello luminoso (che Caterina vedrà, lei sola, per tutta la vita) e le dice: "Ecco, Io ti sposo a Me nella fede, a Me tuo Creatore e Salvatore. Conserverai illibata questa fede fino a che non verrai nel cielo a celebrare con Me le nozze eterne"» (Sicari).
E' questo l'apice dell'eccezionale esperienza mistica che fu donata ad una semplice ragazza di vent'anni: Gesù le si è palesato direttamente e l'ha interiormente illuminata.
Una superficiale lettura potrebbe rinvenire in questa privata rivelazione i prodromi di quello che, circa un secolo dopo, sarà il metodo protestante per attingere il divino: Cristo, ormai lontano, offre all'uomo luminosi attimi di interiore prossimità attraverso quello che Karl Barth chiama, «contatto per tangente».
Ma l'esperienza mistica di Caterina, integralmente cattolica, non è «amore di lontano»: l'Amante divino permane come una presenza. «Ora, è più potente l'impeto di ammirazione, di contemplazione che l'uomo ha verso la donna che ama quando se la immagina o quando l'ha davanti a sé? E' mille volte più potente il senso mistico di contemplazione, chiamiamolo così, in presenza dell'oggetto d'amore, piuttosto che quando esso sia affidato al proprio, sia pure intenso, sentimento in lontananza! Ecco perché tanti sono stati i mistici cattolici, ed i più grandi! E' molto più potente l'amore all'oggetto quando l'oggetto determina con la sua presenza, che neanche quando esso sia determinato immaginativamente dentro la proiezione di un sentimento necessariamente più vago» (L. Giussani).
Per la riforma della Chiesa e del mondo
I tredici anni che le restano da vivere, Caterina li spende nella missione di riforma della Chiesa e del mondo, andando a incontrare di persona e più spesso scrivendo a papi e cardinali, re e principi.
Sono lettere taglienti (spesso invita il papa ad essere «virile»), determinatissime (molto frequente è l'espressione «Io voglio»), tutte connotate dalla celebre chiusa: «Gesù dolce, Gesù amore». Francesco De Sanctis le chiama: «il codice d'amore della cristianità».
Finalmente l'azione di Caterina ha successo: vincendo lo scherno e l'ostilità di quasi tutti i cardinali, lei riesce a convincere papa Gregorio XI a lasciare Avignone per far ritorno a Roma, nel settembre 1376.
Ma ben presto scoppia il Grande Scisma e Caterina è di nuovo attivissima contro l'antipapa e in favore del vero papa Urbano VI, che la vuole a Roma.
Sfinita dalla fatica e dalla passione tanto da non riuscire quasi più a camminare, nonostante l'età ancor giovane, la Santa fa voto - nella quaresima del 1380 - di recarsi ogni mattina in San Pietro a far compagnia allo Sposo; ogni volta si ferma davanti al mosaico, disegnato da Giotto per il frontone dell'antica basilica, il quale rappresenta la navicella della Chiesa che resiste alla tempesta. Stare su quella nave, secondo il metodo cattolico, dà la certezza di giungere al porto; quindi - ella esorta - «pigliate la navicella della Santa Chiesa» (Lettera 357). E ancora: «Quando egli è l'ora terza, e io mi levo dalla messa, e voi vedreste andare una morta a San Pietro; ed entro di nuovo a lavorare nella navicella della Santa Chiesa» (Lettera 373).
Nell'ultimo anno di vita si sostiene con la sola Comunione (cf Ibid.).
La terza domenica di quaresima si accascia a terra davanti a quel mosaico. Muore l'ultima domenica di aprile, alle tre del pomeriggio: ha trentatré anni, come Gesù.
La «cristiformità» dei santi (di Caterina come già di Francesco) rende più evidente ciò che è vero per tutti i christifideles: essi col Battesimo sono investiti tanto profondamente da Cristo che diventano parte di Lui, così da far corpo con Lui.
Dio, Padre misericordioso, ricorda nel Dialogo della Divina Provvidenza di aver già donato la salvezza: «volendo rimediare a tanti mali v'ho dato il Ponte del mio Figliolo, acciò che passando il fiume non annegaste, il quale fiume è il mare tempestoso di questa tenebrosa vita».
Ma Cristo - la Via, il Ponte - che permane nella «nave» della Chiesa, per chi incontra Caterina si palesa proprio attraverso lei come Verità che conviene seguire nella vita: «Da quando la conobbi - scrive un discepolo della Santa - di null'altro m'importa nella vita, se non di piacere a Dio».
Caterina, una «via» a Dio
C'è una pagina, stupenda e terribile, in cui tutto ciò appare evidente: è la Lettera 273, a frate Raimondo da Capua, divulgata da tutte le antologie.
Siamo nel 1377. Niccolò di Toldo, un gentiluomo perugino, viene condannato a morte dai magistrati senesi, con l'accusa di spionaggio «per alcuna parola che incautamente avea detta che toccava lo Stato». Narra un testimone: «Per la prigione egli andava come uomo disperato, non volendosi confessare, né udire né frate né prete che li dicesse cosa che appartenesse alla sua salute. Alfine fu mandato per questa vergine, la quale con grandissima carità l'andò a trovare in prigione».
La Lettera 273
Quello che accadde lo racconta lei stessa nella Lettera.
La prima parte costituisce una sorta di premessa a quella che sarà la scena culminante. A frate Raimondo, «padre» in quanto sacerdote confessore e «figliuolo» in quanto discepolo, Caterina esprime il desiderio di vederlo perdersi per ritrovarsi, annegandosi umilmente nel sangue di Cristo. Dal costato del «dolce Agnello svenato» sgorga il sangue del sacrificio redentivo, «Intriso col fuoco dell'ardentissima carità sua». S'istituisce così quel binomio sangue-fuoco (fusi in una purificante fornace) che attraversa tutto il testo: quel costato è una bottiglia («bottiga») in cui entra il nostro peccato e ne esce mutato, tanto da diventare «odorifero»; quel cuore squarciato è una «botte» (si allude alla transustanziazione del vino in sangue di Cristo) da cui sgorga un'ineffabile dolcezza, cui attingere abbondantemente per poi condividerla coi fratelli.
Commenta Giovanni Testori, uno scrittore consentaneo (come lo era stato a inizio '900, il senese Federigo Tozzi): «Caterina è come una lama che ha ferito i secoli; li ha trapassati ed è arrivata qui fino a noi, lorda ancora di sangue; un sangue, quello di Cristo e quello di tutti gli esseri viventi, che non le ha mai dato requie; anche se fu l'origine della sua sola, reale pace; e requie». E aggiunge che questa Lettera è proprio «la più implacabile e, per naturale contrappasso, la più placante; almeno una volta che la si sia attraversata o che se ne sia lasciati attraversare». Ma questo non è immediato. Confessa un giovane scrittore, Luca Doninelli, che attorno a questa pagina ha costruito il suo libro d'esordio: «La prima volta che lessi la lettera, ne fui quasi disgustato. Provai ribrezzo per quel sangue». Ma poi comprende: «Era proprio di quel sangue che io avevo bisogno per trovare il volto della mia vita».
Nella parte centrale del testo Caterina racconta l'incontro con Niccolò, che - da lei confortato - si confessa, si comunica, accorda la propria volontà col disegno di Dio. Ha un solo timore: non avere più questa forza in punto di morte. «Ma la smisurata bontà di Dio lo ingannò...».
Commenta Mario Pazzaglia: «L'"inganno" di Dio consiste nel suscitare nel cuore del giovane il desiderio affettuoso della presenza di Caterina, creatura umana che con la sua ardente carità diviene l'espressione sensibile della misericordia e dell'amore divino. Attraverso questo affetto ancora umano, ma purissimo, il giovane riceve la rivelazione di un amore più grande... Dio gli si rivela attraverso la presenza di lei».
Attraverso l'umano: questo è il metodo che Dio ha scelto per rivelarsi all'uomo; attraverso un'intensa affezione si perviene alla chiarezza della ragione. Ciò che rende Niccolò «tutto gioioso e forte», ciò che muta la «tristizia in letizia» è la certezza che lei - «la dolcezza dell'anima mia» - sarà lì ad attenderlo sul patibolo (che - grazie a lei - il condannato giunge a chiamare «luogo santo»!).
Caterina rende concretamente presente il Signore a lui, così come la Madonna e santa Caterina d'Alessandria sono realmente una «presenzia» per lei.
Ugualmente reale è il dialogo in cui la giovane «costringe» Maria a fare la grazia (che Niccolò sperimenti nell'attimo supremo la luce, la pace e la visione di Dio, fine ultimo); e la Madonna promette: di qui una commozione tale che la Santa non vede più neanche la folla di curiosi che eran lì per l'esecuzione.
Nel sangue di Cristo
Niccolò giunge «come agnello mansueto» (sempre più simile all'Agnello) e si fa fare da lei il segno della croce; un attimo prima di morire «la bocca sua non diceva se non Gesù e Caterina»: la meta ultima in cui riporre tutta la propria speranza, e lo strumento venerabile attraverso cui, per grazia, gli era stato dato di riconoscerla.
La Santa, mentre riceve la testa del decapitato, tiene gli occhi fissi sulla bontà di Dio e dice quel tremendo «Io voglio!».
E vede: Cristo, nell'unione ipostatica di Dio e Uomo, accoglie attraverso la soglia del costato - «bottiga aperta» -, il «desiderio santo» di Niccolò.
Sangue nel sangue, fuoco nel fuoco. Il sangue del giovane «valeva» perché versato in memoria del sangue di Cristo. E l'anima di Niccolò, prima di varcare la soglia, si volge indietro e fa un inchino a Caterina che l'ha accompagnata, come fa una sposa prima di entrare nella dimora dello Sposo.
Addosso alla Santa rimane quell'«odore di sangue», cioè quel desiderio del martirio e quell'«invidia» per colui che l'ha appena preceduta. Un evento che si pone come «prima pietra» su cui edificare l'opera della «bella brigata». E come pietra di scandalo.