Ludovico Ariosto: l'Orlando Furioso

Il Per-Corso e i percorsi.

Schede di revisione di letteratura italiana ed europea
Autore:
Filippetti, Roberto
Fonte:
www.itacalibri.it

Tutti cercano qualcosa

Il I canto, vero «microcosmo, che presenta già in sé i temi e le strutture narrative che saranno poi propri dell'intero poema» (Baldi), è in tal senso esemplare. Nel pirotecnico proliferare di avventure che rampollano una dall'altra, appare palese che tutti i personaggi rincorrono qualcosa d'inafferrabile - che compare e subito sparisce - il quale sembra corrispondere alla sete di felicità del cuore di ciascuno: è il motivo tradizionale della quest cavalleresca, abbassata però ad oggetti del desiderio che si moltiplicano in un proteiforme gioco degli specchi. Al posto del sacro Graal vi sono ora idoli profani che illudono e sono destinati a deludere ben presto.
Angelica, fuggendo dal campo cristiano in cerca di libertà, entra «in un bosco» e s'imbatte nell'odiato Rinaldo, il quale, appiedato, dava la caccia al cavallo Baiardo; il paladino insegue ora Angelica, che scappa di nuovo «ne l'alta selva fiera», giunge ad un fiume e trova l'insperato aiuto di Ferraù, il quale stava cercando l'elmo cadutogli in acqua; Rinaldo e Ferraù si affrontano, ma poi interrompono il duello per correre assieme («Oh gran bontà de' cavalieri antiqui!»), entro «selve oscure» all'inseguimento di Angelica; ad un bivio i due si separano e Ferraù, dopo aver girato a vuoto, si ritrova in riva al fiume, ove torna a cercare l'elmo, ma si vede comparire il terrificante fantasma di Argalia; Angelica, che continua a fuggire «tra selve spaventose e scure», incontra un altro suo innamorato, il re saraceno Sacripante, e crede di trovare in lui un fedele difensore, mentre questi intende approfittare di lei; ma il «dolce assalto», teso a cogliere «la fresca e matutina rosa», è impedito dall'arrivo di un misterioso cavaliere; nel duello il re saraceno è disarcionato ed avvampa poi di vergogna quando apprende che lo «levò di sella / l'alto valor d'una gentil donzella»: Bradamante, a sua volta in cerca di Ruggero.
Tutti cercano qualcosa: la libertà, un cavallo, un elmo, l'oggetto del desiderio amoroso. «Nessuno trova quello che cerca, tutti trovano quello che non cercano» (Cesarani).

Un girare a vuoto

Ma Ariosto, con una delle sue moralità, ci aveva preavvertiti: «ecco il giudicio uman come spesso erra». In un mondo dominato dall'arbitrio della fortuna, il calcolo della mente e i desideri del cuore non possono che naufragare. E il viaggio della vita non può che essere un «errare», un girare a vuoto «di qua, di là, di su, di giù»: è questo, come ha mostrato il critico americano D. S. Carne-Ross, lo stilema ariostesco che simboleggia un movimento vanamente circolare, all'interno di uno spazio labirintico che, perso l'orizzonte trascendente, è tornato ad assumere i tratti della «selva oscura» in cui l'uomo si smarrisce. «Il movimento circolare è un movimento insensato senza meta reale, maniacalmente ripetitivo, che rende l'immagine dell'avvolgersi degli uomini nei loro "errori"» (Baldi): è un movimento folle.
Strutturalmente identico sarà, giusto quattro secoli dopo, il «viaggio» del pirandelliano Mattia Pascal: «Mattia, matto», appunto! Questi ha cercato inutilmente la propria identità, che all'inizio del romanzo aveva almeno una consistenza anagrafica; alla fine di una ricerca sterile, Mattia si vede «sperduto» e riconosce di essere «solo, senza casa, senza meta».
Simile è anche lo strumento di cui i due autori si servono per connotare l'ambivalenza e la precarietà delle scelte umane: in Pirandello l'umorismo, in Ariosto l'ironia.
La canonica invocazione alla musa è da quest'ultimo sostituita con un'ironica allusione alla propria donna che lo ha reso «quasi» pazzo per amore, giusto come Orlando, Rinaldo è un cavaliere abbassato a «pedone» che insegue il proprio cavallo; Angelica, cinica calcolatrice, conserva ormai ben poco della «donna-angelo»; sferzati dall'ironia sono Ferraù, che non ha mantenuto la parola data, e Sacripante che, ben lontano dal modello del cavalier cortese, vuol possedere Angelica e finisce invece, sotto gli occhi di lei, sconfitto da una donna e intrappolato sotto il cavallo.

L'uomo è fragile

L'ironia di Ariosto non tende - come vuole Hegel - a «dissolvere» gli ideali cavallereschi; mira piuttosto sorridere, con bonario distacco, sulla presunzione umanistica che fa dell'io individuale la misura del reale. L'uomo gli appare com'è: segnato da un ontologico limite, da un'ultima fragilità che le azioni rivelano. E l'autoironia attesta come ciò valga, in primis, per l'autore stesso.
Cervantes, un secolo dopo, farà col Don Chisciotte la parodia della cavalleria; Ariosto si limita a desublimarla, abbassandone dignità e solennità, cogliendone gli aspetti prosaici, «facendo emergere sotto i cavalieri e le dame della leggenda gli uomini e le donne reali, con i loro limiti e i loro problemi» (Baldi).
L'ironia, mentre diverte il lettore, gli impedisce di immedesimarsi negli eroi; lo induce piuttosto a guardare il tutto in maniera disincantata, «straniata», quindi a riflettere su di sé e sul reale (non a caso è strumento caro ai grandi realisti, da Boccaccio a Manzoni).

Prigionia e libertà

«Fil-rouge» dei canti II-III-IV è Bradamante, a cui lo spirito del mago Merlino rivela: «il voler del ciel (...) di Ruggero / t'ha per moglier fin da principio eletta» per dare inizio alla gloriosa stirpe Estense.
La maga Melissa dà poi all'eroina le istruzioni per sconfiggere il mago Atlante, che teneva prigioniero Ruggero in un castello incantato. Il paternalismo protettivo di Atlante ha edificato questo luogo di delizie per custodirvi Ruggero, da lui allevato, e così preservarlo da un destino glorioso ma tragico; nel castello egli ha accumulato tutti i piaceri del mondo: «suoni, canti, vestir, giuochi, vivande, / quanto può cor pensar, può chieder bocca». Ma si tratta di una «quantità» di beni senza la «qualità» del supremo bene umano: la libertà. A ben vedere, tutta qui sta la differenza tra il sogno (proiezione della mia misura naturale) e l'ideale (dono portato da altro da sé, che rende presente una misura più grande).
Ad Atlante che è pronto a concedere tutto ma non Ruggero, replica perentoria Bradamante: «Lui vo' porre / in libertà». Il mago è vinto e incatenato, l'effimero castello svanisce, tutti gli ospiti si ritrovano liberi, ma non tutti ne sono contenti: «Le donne e i cavalier si trovár fuora / de le superbe stanze alla campagna: / e furon di lor molte a chi ne dolse; / che tal franchezza un gran piacer lor tolse».
C'è sempre chi preferisce alla libertà («franchezza») la prigione dorata: lucido controcanto realistico ariostesco, in una pagina piena di incantesimi e magie!
Ruggero, appena restituito a Bradamante, subito le è tolto: salito incautamente sull'ippogrifo, è dallo «strano augello» condotto nella remota isola di Alcina. Novella Circe, questa maga, che nella palese allegoria rappresenta la lussuria, letteralmente «ad-esca» le sue vittime («e senza rete e senza amo traea / tutti li pesci al lito, che volea»).
Fra loro vi è anche Astolfo che, ora trasformato in mirto, mette in guardia Ruggero raccontandogli la propria vicenda: Alcina lo ha sedotto, tanto da fargli dimenticare tutto ed apparirgli come pieno appagamento del desiderio. «Né di Francia né d'altro mi rimembra, / stavomi sempre a contemplar quel volto, / ogni pensiero, ogni mio bel disegno / in lei finia, né passava oltre il segno»: mentre Beatrice è per Dante «segno» che rimanda al Significato ultimo e lo rende presente, Alcina è sembrata essere Fine ultimo, «segno» in sé concluso, deificazione dell'impulso naturale; ma poi ha abbandonato il paladino (e l'ha mutato in una pianta) per passare ad altro amore. La lussuria, come ogni idolo, degrada il suo adoratore al livello bestiale, vegetale o minerale: «o in fiera o in fonte o in legno o in sasso» (anche l'Orlando di Boiardo aveva detto che chi non pensa a Dio «è simile a un bove, a un sasso, a un legno»).
Alcina e Morgana, perfide e viziose, hanno ormai usurpato quasi tutto il regno che apparterrebbe a Logistilla, la ragione che indica la strada della virtù. Nonostante l'ammonimento di Astolfo, anche Ruggero si lascia ammaliare dalla maga: giovane focoso e irresoluto, di fronte al bivio tra vizio e virtù egli sceglie la via più facile e piacevole.

Peraltro, lungo i canti VI-VII, Ariosto indugia nella descrizione della bellezza seducente ed irresistibile di Alcina (solo più avanti si scoprirà che essa è in realtà una vecchia e laida meretrice), del suo palazzo abitato da ospiti eccellenti, del suo giardino di delizie: è il sogno idillico - caro al nostro Rinascimento - di un'esistenza sempre baciata dal piacere. D'altra parte, se la Natura - panteisticamente intesa - è l'orizzonte ultimo dell'uomo, perché frenare l'istinto naturale?
Ariosto stesso è in bilico tra edonismo e moralismo, e il suo Ruggero, che all'inizio del canto VIII s'incammina verso Logistilla (la quale infine gli insegnerà ad imbrigliare l'ippogrifo, figura della fantasiosa inclinazione umana alla voluttà), «tra duri sassi e folte spine gìa /... / di balzo in balzo, e d'una in altra via / aspra, solinga, insopita e selvaggia»: davvero poco affascinante è la via del dovere, quando questo è ridotto a sforzo moralistico! Ma l'autore, dio del poema, deve farla percorrere a questo personaggio in formazione che, al culmine del processo di maturazione, si convertirà al cristianesimo, difenderà la fede nel conclusivo duello con Rodomonte e sposerà Bradamante.

Dante in Ariosto

In piena temperie petrarchista, dantesco è l'incipit del Furioso: "Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori, / le cortesie, le audaci imprese io canto". Il distico riprende esattamente una terzina del Purgatorio (XIV, 109-111): piango quando ricordo "le donne e' cavalier, li affanni e li agi / che ne 'nvogliava amore e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi". Dante, addolorato per la malvagità del presente, fa qui parlare Guido del Duca di quel mondo cavalleresco di cui lui stesso ha profonda nostalgia. Ancor più struggente è la nostalgia – etimologicamente "dolore del ritorno" – di Ariosto, perché priva di quella speranza che illumina invece il Fiorentino. Dante si è appena paragonato con la senese "Sapìa" che – contraddicendo il proprio nome – non è stata "savia" (Purg. XIII, 109), anzi fu per invidia "folle" (v. 113) e sfidò temerariamente Dio, con il Quale però in fin di vita si riconciliò.
Orlando sta invece discendendo dalla saggezza alla «deformante» follia. La sua amorosa «inchiesta» di Angelica, per nobile e purissimo amore, inizia nel canto VIII con un notturno incubo in cui egli sogna di perdere per sempre la sua donna; nell'ottava 82 Ariosto «cita» l'incipit del XIII dell'Infemo dantesco, riprendendone la tripletta di rime petrose «fosco-bosco-tòsco»: eloquente chiave di lettura intertestuale, all'inizio della discesa agli inferi del protagonista.
Tappa ulteriore è, nel canto XII, il secondo castello d'Atlante. Qui molti cavalieri, fra i quali è Orlando, «cercano invano» (queste le due parole-chiave, fittamente reiterate) l'oggetto del desiderio. Per un attimo credono di averlo trovato: «a tutti par che quella cosa sia, / che più ciascun per sé brama e desìa»; ma subito, delusi, tornano ad aggirarsi a vuoto, «errando» nella «gabbia», correndo «di qua di là di su di giù». A ben vedere, lo stilema ariostesco reitera ossessivamente un verso di Dante - Inf V, 43 - in cui per contrapasso i lussuriosi, che si lasciarono andare alla tempesta della passione, ora sono travolti dal vento infernale che «di qua, di là, di sù, di giù li mena»: altra eloquente chiave intertestuale!
Omologo alla «selva», il secondo castello d'Atlante - la critica è concorde - si configura come immagine del mondo moderno, nel quale gli uomini si aggirano schiavi delle apparenze, incapaci di distinguere la realtà dal sogno. In Dante la donna angelicata porta realmente la salvezza («Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia ..»); ad Orlando una certa immagine «parea / Angelica gentil ( ) la sua donna». Ma il verbo «pare-parea» ha mutato valenza semantica: in Dante significa «appare evidentemente per quel che è», in Ariosto vuol dire «sembra ma non è».
Orlando e gli altri cavalieri appaiono come degli alienati, dei «fissati»: mentre Dante quanto più segue un ideale stabilito da un Altro tanto più è libero, l'uomo moderno insegue vanamente un sogno fissato da lui stesso.

La "follia"

Il passo dalla fissazione maniacale alla follia è breve: quando la realtà dell'unione tra Angelica e Medoro s'impone con tutta evidenza (canto XXIII), Orlando dapprima «pensa come / possa esser che non sia la cosa vera»; poi, di fronte alla prova schiacciante, il suo io va in frantumi, in perfetta sincronia con lo sbriciolarsi della possibilità di raggiungere l'oggetto del proprio desiderio. Egli fugge in mezzo al bosco, piange, confessa la propria infernale autocoscienza divisa: "Non son, non sono io quel che paio in viso: / quel ch'era Orlando è morto ( ) / Io son lo spirito suo da lui diviso, / ch'in questo inferno tormentandosi erra».
Pieno di «odio, rabbia, ira e furore», comincia a frantumare tutti i segni che, ricordandogli l'amore di Angelica per Medoro, lo inchiodano alla realtà. Infine, spossato, «cade sul prato, e verso il ciel sospira. / Afflitto e stanco al fine cade ne l'erba, / e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto».
Per il Binni è questo «l'ultimo cenno di umanità» di Orlando, in bilico tra preghiera e bestemmia.
In maniera ben diversa l'Innamorato di Boiardo aveva rivolto lo sguardo verso il «cel stellato»! Uscito «fuor dal senno», ora egli si strappa furiosamente di dosso l'armatura e gli abiti, e sparpaglia le armi per il bosco in un'esplosione centrifuga che appare omologa alla schizofrenia dell'io. E' «la gran follia» d'Orlando.
Ridottosi allo stato bestiale (canto XXIV), nudo e irsuto, gareggia con le altre belve, si nutre di carni crude, fa strage di animali: «Di qua, di là, di su, di giù discorre / per tutta Francia». Un giorno s'imbatte in Angelica (canto XXIX), ma non la riconosce; la insegue, tuttavia, come farebbe «il cane» con una fiera. Grazie ad un anello magico lei, mentre si sottrae alla vista del matto, cade di cavallo a gambe levate: in questa maniera, beffarda e dissacrante, esce per sempre di scena l'eroina.
Il folle s'accontenta allora della giumenta di lei; quando essa s'azzoppa, la porta in spalla; infine se ne va «errando.. / molti dì la cavalla strascinando / morta».
Sarà l'amico Astolfo ad andare a recuperare il senno d'Orlando sulla luna, dove si accumula tutto ciò che in terra si perde: fama, desideri vani, preghiere egoiste, potenza e gloria mondana, adulazioni, bellezza femminile… Idoli che da lassù rivelano tutta la loro vacuità.

Il "pessimismo" dell'Ariosto

La guerra si conclude con la singolar tenzone tra tre campioni cristiani e tre saraceni, a Lipadusa (canto XLI).
Gradasso, armato della Durlindana abbandonata da Orlando quand'era folle, ferisce a morte l'amico di quest'ultimo, Brandimarte. Commossa e ricca di risonanze petrarchesche è la preghiera che Ariosto eleva a Dio. «Padre del ciel, dà fra gli eletti tuoi / spiriti luogo al martir tuo fedele, / che giunto al fin de' tempestosi suoi / viaggi, in porto ormai lega le vele». Brandimarte muore dopo aver chiesto perdono a Dio dei propri peccati; Orlando è testimone della sua salvezza eterna, «che 'l ciel gli vide aperto». Oliviero, l'altro campione cristiano gravemente ferito, guarirà miracolosamente (canto XLIII), ricorrendo ad un santo eremita («Oh virtù che dà Cristo a chi gli crede!»).
E' presente anche Sobrino, il sopravvissuto dei tre saraceni, che, di fronte al «miracol grande ed evidente», si converte al cristianesimo. E c'è pure Ruggero, ormai battezzato ed educato dall'eremita a non andar dietro alle lusinghe del mondo, bensì «alle vie del ciel sempre aver gli occhi».
Dio non appare pertanto negato o assente dal poema; ma è comunque talmente lontano dall'esistenza e dall'economia complessiva dell'opera che, col Baldi, possiamo concludere così: «Il mondo del Furioso è un mondo tutto immanente, che ignora o mette tra parentesi la trascendenza. (...) In esso domina non il disegno divino che tutto regola provvidenzialmente, ma l'azione capricciosa e imprevedibile della Fortuna».
Ne consegue, contro l'ottimismo quattrocentesco, il pessimismo dell'Ariosto. la Fortuna fa del mondo un caos; l'uomo, che vorrebbe dominare la realtà, è invece destinato allo scacco. Può al massimo governare un particolare, che per l'autore è il suo poema, così ordinato, limpido e simmetrico. «L'unico ordine possibile per Ariosto è la letteratura», ma essa è un simulacro della realtà, non la realtà. All'alba della modernità l'antropocentrismo comincia così a mostrare le prime crepe: il re è nudo.