San Francesco d’Assisi: la vita

Il Per-Corso e i percorsi.

Schede di revisione di letteratura italiana ed europea
Autore:
Filippetti, Roberto
Fonte:
www.itacalibri.it

Il cammino spirituale di Francesco

Quando muore Chrétien de Troyes, Francesco è un bambino di sette od otto anni. Non sappiamo se egli abbia sentito recitare una chanson de geste o abbia letto il Perceval o il Lancelot, ma certamente conosceva bene le leggende del ciclo arturiano: da tempo infatti i giullari le divulgavano nelle piazze dell'Italia comunale.
Francesco, nato nel 1181 o 1182, crebbe in mezzo alla «gioventù dorata» di Assisi, e anzi fu il capo riconosciuto di quei giovani gaudenti. Essendo il padre Pietro Bernardone un ricco mercante e usuraio, l'affascinante rex iuvenum aveva molti soldi da spendere in conviti e feste notturne; egli vi si comportava da giullare, o da «folle»: colui al quale tutto è permesso, sempre allegro e spensierato.
Accanto alla gioia egli cercava la gloria: nel 1202 partì per la guerra contro i perugini, ma fu fatto prigioniero e tornò a casa l'anno dopo, profondamente segnato e pieno di compassione per i poveri. Nel 1204 decise di cercare l'avventura, come i cavalieri dei romanzi, e si arruolò al seguito di Gualtiero di Brienne, ma giunto a Spoleto si ammalò e dovette tornare ad Assisi, sempre più turbato.
Nella primavera del 1205, si organizza ancora una festa: ma ormai quella superficiale allegria, quello scettro di giullaresco re del convito, quelle solite battute, non lo divertono più. Il ragazzo spensierato, ora è sempre più pensoso di fronte al miseri e agli infelici.
Pochi mesi dopo va pellegrino a Roma. Entrato in San Pietro getta tutto il proprio denaro sulla tomba dell'Apostolo, poi esce e si mette a chiedere l'elemosina.
E tornato ad Assisi s'imbatte in un lebbroso. Francesco, come tutti i suoi contemporanei, prova orrore per questa malattia che era reputata particolarmente impura; tuttavia scende da cavallo, abbraccia e bacia quel povero Cristo («Non c'è nulla che abbiate fatto a questi piccoli, e che non abbiate fatto a me»).
La conversione del giovane, maturata lungo un biennio, culmina in questo evento che anche etimologicamente possiamo definire «in-contro»: ossimorica fusione di attrazione per quella carne sofferente in cui traspariva l'ecce homo, e di istintiva repulsione di fronte a quelle piaghe purulente e maleodoranti. Quel bacio si configura come atto sponsale con madonna Povertà, ovvero con Cristo concretamente vivo e presente qui e ora.
In punto di morte il Santo ricorderà questo fatto, all'inizio del Testamento: «Il Signore dette a me frate Francesco, d'incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu mutato in dolcezza d'animo e di corpo».
Metànoia: radicale cambiamento di mentalità, totale rovesciamento del giudizio rispetto a quello del mondo cosicché, paradossalmente, la libertà coincide con l'obbedienza e la «perfetta letizia» sta nell'ingiustizia subìta e nell'immeritata umiliazione. I moderni si affretterebbero a rubricare ciò come sadomasochismo; è invece gioia che discende dal riconoscere nella propria carne il pallido riverbero dell'abbassamento di un Dio che viene innalzato sulla croce.
Di fronte a questo lebbroso, l'incontro tra la Grazia (l'iniziativa è del Signore) e l'umana libertà, porta al mutamento mentre prima la sola vista, anche in lontananza, generava amarezza, ora è il dolce contatto di un abbraccio.

Vita da convertito

Le vicende successive sono note: uno stile di vita che segue il Vangelo alla lettera; l'irritazione di Pietro Bernardone che accusa il figlio davanti al vescovo; la decisione di Francesco di spogliarsi nudo: «Da questo momento posso ben dire: Mio padre che sei nei cieli»; i primi discepoli e il prodigioso moltiplicarsi dei frati; Chiara e il Secondo Ordine; l'incontro col Sultano; le «Regole»; i dolori degli ultimi anni; le stimmate, a sigillo di una vita connotata dalla «cristiformità».
Attorno a Francesco si radunò una realtà socialmente identificabile: un gruppo di lieti «giocolieri di Dio» che lavoravano nei campi, vivevano in mezzo ai poveri e ai lebbrosi, girovagavano dormendo sotto i portici o nei fienili. In analogia con la Chiesa, era quella «una storia nella storia, che porta la salvezza di tutta la storia». Una piccola grande storia a sostegno dell'intero edificio ecclesiale, come raffigurato nel famoso «sogno di papa Innocenzo» dipinto da Giotto; una compagnia che collabora al compito che il Crocifisso di San Damiano ha assegnato ad una persona precisa: «Francesco, va', ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina».
E questa consegna, che ha certo anche una valenza morale ed allegorica (Ecclesia semper reformanda!), fu presa alla lettera: restaurare l'edificio materiale che custodiva l'icona di quel Crocifisso, al cui pensiero il giovane non riusciva a trattenere le lacrime.
Alla nuova, commovente consapevolezza non fanno seguito le chiacchiere, magari sulla corruzione del clero, ma il concreto fare. E che il lavoro per ricostruire San Damiano e altre chiese fatiscenti di Assisi (San Pietro, la Porziuncola) non fosse dovuto ad un ingenuo errore d'interpretazione delle parole di Gesù, lo confermerà il Testamento, in cui Francesco parla del Signore che gli ha dato «fede nelle chiese sue» come luoghi materiali di adorazione di Colui che con la santa croce ha salvato il mondo.
Arcinota è poi la venerazione del Santo per i sacerdoti, magari ignoranti e concubini, dei quali amava baciare quelle mani che hanno il potere di consacrare il pane e il vino. La chiesa, il prete, l'Eucaristia, i «santissimi nomi»: realtà fragili come «vasi di creta», attraverso le quali il divino ha deciso di voler passare per risplendere nel mondo.

Francesco, «sacramento» di Cristo

Anche la natura di Francesco era fragile, essendo egli basso, mingherlino, di salute cagionevole. Ma proprio a lui fu donato un particolare carisma dello Spirito Santo: allora, per chi lo aveva incontrato, seguire Cristo significava pedagogicamente obbedire a quel piccolo uomo e alla sua Regola, sine glossa.
Quando un novizio gli chiese il permesso di tenere un libro di preghiere, Francesco mette in scena un'azione mimica: si cosparge la testa di cenere e continua a ripetere: «Io il breviario, io il breviario».
Quando, verso la fine della sua vita, egli è infermo a San Damiano e le clarisse gli chiedono di predicare dinanzi a loro, Francesco accondiscende, ma sorprendentemente mette in scena una muta omelia: radunate le suore, sta a lungo in preghiera con gli occhi al cielo; poi si fa portare della cenere con parte della quale si cosparge il capo, mentre con il resto traccia un cerchio attorno a sé; infine recita il Miserere, poi si alza e se ne va. Dopo un attimo di smarrimento le clarisse hanno capito e si sono sciolte in lacrime: se loro erano lì era grazie all'incontro con Francesco, veicolo di una fede viva, ovvero del riconoscimento nella propria vita di una Presenza eccezionale che corrisponde al cuore; la lieta realizzazione di sé e l'obbedienza allo Spirito significava - ultimamente - seguire quell'uomo fragile e perituro (la cenere in testa) che era stato posto quale luogo circoscritto (il cerchio di cenere) scelto da Dio come «terminale» del grande mistero dell'Incarnazione, come Carisma che esiste in funzione e a sostegno della totalità della Chiesa. Il metodo è guardare lui che tiene gli occhi rivolti verso il cielo, e non da soli rivolgersi verso l'alto; seguire lui che dice il Miserere, e non improvvisare proprie preghiere in ossequio al mito della spontaneità e dell'originalità.
Ma la cultura di oggi ritiene impossibile conoscere, cambiare se stessi e la realtà «solo» seguendo una persona, facendo coincidere il breviario con una fragilissima (ancora la cenere!) persona.