Dante e il viaggio

Autore:
Arnone, Enzo


Intendo proporvi una chiave di lettura dell'opera di Dante tenendo presente che da diversi anni a questa parte la conoscenza di questo poeta e della sua opera è andata diminuendo sempre più nella scuola italiana.
Per fare questo vorrei iniziare con un'analogia che può facilitare la comprensione di quanto esporrò in seguito.
La maturità costituisce per gli studenti un punto cruciale della vita perché l'esame di maturità è una scadenza che non coinvolge solamente l'itinerario scolastico, ma segna anche una tappa della vita umana. È il momento per fare un bilancio, il primo bilancio della vita; ed è giusto periodicamente guardarsi indietro per cercare di capire che cosa si è vissuto, perché per progettare il futuro non si può che partire dai dati obiettivi che si hanno in mano, cioè da chi si è nel momento presente della propria esistenza.
Se ci si volta indietro ci si accorge che la propria storia rimanda a dei volti, a degli incontri, a delle parole: la nostra memoria non conserva tutto, bensì solo alcuni eventi che hanno maggiormente inciso, spesso senza saperne bene le ragioni, sulla propria storia fino a determinare la persona che si è.
Questo significa che la vita non è un flusso indifferenziato di fatti, ma che essa si raccoglie attorno a circostanze, a persone, ad eventi, e a parole che sono più significativi di altri. Cosa significa questo atteggiamento dell'uomo che ogni tanto si volge indietro con lo sguardo alla propria memoria se non il tentativo di capire che cosa ha vissuto? Non basta descrivere, si vuole capire il significato di ciò che si è, si vuole capire che cosa è accaduto nella propria esistenza e quale forma questo abbici impresso ad essa.
L'uomo ha, dunque, bisogno di rileggere la vita per decifrarne il senso. Anche Dante, nella cantica del Paradiso, si trova al termine del suo viaggio nell'al di là: l'Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. È giunto, come dice, «nel ciel che più della sua luce prende», nel cielo in cui riverbera più intensamente il fulgore della luce di Dio. Dunque la Divina Commedia è la storia di un viaggio.
Tutta la letteratura è costituita da racconti di viaggi, perché non si viaggia solo attraverso gli spazi, ma anche attraverso il tempo, non solo nella fantascienza: tutta la vita dell'uomo può essere considerata un viaggio, è paragonabile ad una serie ininterrotta di tappe, di incontri, insieme ad altri compagni di viaggio.
Allora si può dire che il viaggio di Dante nell'al di là vuole essere la metafora, la rappresentazione allegorica del viaggio dell'uomo attraverso l'al di qua.
Il Paradiso, come ogni opera d'arte in generale, è costruito su diversi livelli di lettura. Nel Convivio Dante dice che i sensi delle scritture sono quattro: il significato letterale, che è ciò che letteralmente quella frase significa; c'è poi il significato allegorico, che è quel meccanismo per cui dicendo una cosa si intende dirne un'altra (ad esempio, se un ragazzo dice alla sua ragazza: «i tuoi occhi sono stelle brillanti», ha inteso dire che i suoi occhi sono particolarmente luminosi e non che al posto degli occhi la ragazza ha due corpi celesti!). Dante parla, infine, di un significato morale e di un significato anagogico, che sono però meno importanti e, infatti, Dante stesso dice che, per comodità, i sensi delle scritture sono due: quello letterale e quello allegorico. Dunque, la Divina Commedia è un'opera allegorica, perché, esprimendo certi significati, ne vuole comunicare altri. Lo dichiara lo stesso Dante nell'Epistola a Cangrande, parlando dello stato delle anime dopo la morte: egli intende rappresentare la lotta dell'uomo contro il peccato e la liberazione da esso; ma la lotta dell'uomo con il male rappresenta, nel linguaggio dantesco, la lotta dell'umanità per la conquista della felicità, in quanto il peccato è l'Inferno, cioè la dimenticanza delle esigenze originali dell'uomo, che rende impossibile la felicità, che è il fine della vita. Il fine della vita umana, come dice Dante nel Convivio, è «lo sommo desiderio di ciascuna cosa e prima della natura data è lo ritornare allo suo principio», è il ritorno all'origine, e dal momento che Dio è l'origine di tutto e quindi anche dell'anima umana (anima vuoi dire «persona» nella sua dimensione razionale, volitiva e affettiva, cioè è una cosa molto concreto), la persona aspira a ritornare al suo principio, cioè a Dio. Per comprendere tutto questo, bisogna liberarsi da certe formulazioni un po' superstiziose o comunque approssimative: Dio non è l'occhio piazzato nel triangolino, né un principio magico a cui l'uomo ricorre quando non sa spiegarsi le cose.
Dante definisce Dio il sommo bene, il sommo piacere (Paradiso, canto XXXIII), Dio è lo felicità, è la sorgente infinita di ogni felicità. Dunque, il viaggio di Dante attraverso l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, è la metafora, l'allegoria del viaggio dell'uomo attraverso la vita che ha come scopo, come meta la felicità. Non esiste felicità se non nella conquista della immagine vera di sé, se non nei termini di una personale realizzazione dell'uomo di quelle esigenze, di quelle domande, di quelle aspirazioni originarie ed inestirpabili da cui la natura umana è contrassegnata fin dalla sua origine.
Nel XVI canto del Purgatorio Dante parla dell'anima dicendo che «È come una fanciulla che esce piangendo e ridendo dalle mani del suo creatore» e che nei suoi primi momenti di vita è semplice, semplicissima, non sa nulla, non ha malizia e quindi non distingue ancora il bene dal male, salvo che, «smossa da lieto fattor», animata, cioè, da un desiderio di bene, da un impulso di autorealizzazione, si rivolge volentieri a gustare ciò che la realizza, sente il sapore del bene.
Infatti la vita è l'impatto con la realtà, in cui vi sono alcuni aspetti gustosi, altri meno; l'anima aderisce alle cose gustose ma, dice Dante, «quivi s'inganna», perché aderisce a cose che solo apparentemente sono gustose, ma che, in realtà, non costituiscono il vero bene.
Occorre quindi una guida per capire bene la natura di questo viaggio, per sapere bene da dove si parte e dove si arriva; per questo vorrei leggervi l'episodio dell'Inferno in cui si narra del viaggio di Ulisse, perché dà la chiave interpretativa di questo viaggio.
Ulisse racconta, interrogato da Dante, come ha avuto termine la sua vita, dove, perduto, è andato a morire:


Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola de' Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l'uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia,
dall'altra già m'avea lasciato Setta.
«O frati», dissi «che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de' nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza».
Li miei compagni fec'io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle giù dell'altro polo
vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando n'apparve una montagna,
bruna per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fe' girar con tutte l'acque;
la quarta levar la poppa in suso
la prora ire in giù, com'altrui piacque,
infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso».
Inferno, XXVI, 85-142


Dunque Ulisse ha tentato di compiere un viaggio al di là dei limiti posti all'uomo, e lo ha intrapreso proprio per obbedire all'impulso naturale, insito nell'uomo verso la conoscenza; si potrebbe definirlo come l'amore per la verità, per la conoscenza del vero.
Tuttavia questo viaggio ha un esito tragico, che ha origine proprio dalla montagna del Purgatorio, il limite sacro, da cui si sprigiona il vento, l'uragano impetuoso che fa girare la nave tre volte su se stessa, facendola inabissare.
Su questo episodio ci sono due rilievi interessanti: il primo si coglie quando Ulisse parla di esperienza: «non vogliate negar l'esperienza». L'esperienza è la tensione dell'uomo ad andare al di là dei limiti, è la tensione dell'uomo ad esaudire la propria sete di conoscenza, e quindi di verità, di perfezione, di genialità, dato che non sono pensabili la felicità e la perfezione senza la verità. L'altra notazione è che questo viaggio termina tragicamente, «come altrui piacque», dice Dante nell'ultimo verso; dunque c'è qualcuno che sbarra il cammino di Ulisse.
Nel primo canto del Paradiso, Dante dice che, guardando Beatrice, divenne come il pescatore Glauco «nel gustar de l'erba / che 'l fe' consorte in mar de li altri dei» (I, 68-69), divenne come quel pescatore che assaggiò un'erba miracolosa che divinizzava coloro che l'assaggiavano. Questo pescatore, vedendo che i pesci a contatto con una certa erba riprendevano vita, volle assaggiarne, e divenne una divinità del mare.
Quindi la visione di Beatrice costituisce per Dante un'esperienza di divinizzazione, che chiama «trasumanar», (cioè l'andare al di là dell'umano), che «significar per verba non si poria» (non si può spiegare con le parole): infatti chi può spiegare con le parole che cosa prova guardando una cosa bella, come si può spiegare il sentimento d'amore che riempie il cuore di un uomo o di una donna nel momento in cui questa esperienza raggiunge il culmine dell'emozione? E Dante aggiunge: «però l'essemplo basti / a cui esperienza grazia serba» (perciò basti questo esempio che ho fatto di Glauco a chiunque la grazia di Dio riserva di vivere la stessa esperienza).
In questi versi si trova espresso un'altra volta il termine «esperienza», usato per indicare il «trasumanar», l'andare al di là dell'umano, come nell'episodio di Ulisse la parola «esperienza» voleva dire andare al di là dei limiti posti da Ercole all'uomo.
Nel secondo caso il protagonista è Dante stesso che racconta, attraverso la Divina Commedia, la sua esperienza del «trasumanar», cioè il suo viaggio, che ha un esito totalmente diverso da quello di Ulisse; il viaggio di Dante non ha un esito tragico, ma culmina con la visione del sommo bene, di ciò che realizza compiutamente la felicità dell'uomo.
A questo punto si deve notare un'altra analogia: nel primo canto del Purgatorio, quando Dante incontra Catone, il custode del Purgatorio, si sente ingiungere di purificarsi prima di accedere al Purgatorio vero e proprio; Dante deve liberarsi da tutta la sozzura accumulata percorrendo l'Inferno, e deve cingersi di uno dei giunchi, un'erba dura e flessibile, che crescono sulla spiaggia del Purgatorio.


«Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com'altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l'umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l'avelse».
Purgatorio, I, 130-136


Rispetto al racconto del viaggio di Ulisse si è sempre in ambiente marino, sulla spiaggia: dove Virgilio strappò la pianta, subito ne rinasce un'altra uguale, «sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque / omo che di tornar sia poscia esperto»: e ancora una volta torna la parola esperienza.
L'altra coincidenza è la ripetizione dell'inciso «come altrui piacque». Ora, dal momento che nulla nella Divina Commedia è casuale si è di fronte ad alcune coincidenze terminologiche: torna più volte «mar esperto» e «come altrui piacque». Questo vuol dire che gli stessi elementi figurativi e linguistici sono utilizzati da Dante per descrivere due situazioni opposte: quella di Ulisse, il suo viaggio al di là dei limiti e il suo esito tragico, e quella di Dante, il suo viaggio al di là dei limiti posti all'uomo e il suo esito felice.
Ciò significa che Dante si considera il nuovo Ulisse, che egli è il nuovo Ulisse; ma, allora, perché il viaggio di Dante è diverso da quello di Ulisse, perché il viaggio di Dante ha una conclusione felice mentre quello di Ulisse ha un esito tragico?
C'è un particolare del viaggio di Ulisse che lo rende disumano, nonostante la grandezza del personaggio, simbolo dell'uomo assetato di verità: la disumanità di Ulisse consiste nel fatto che non solo non è valso il pensiero della moglie, del figlio o del padre a trattenerlo dal tentare quest'ultima grandiosa, ma in fondo patetica, avventura («noi eravamo vecchi e tardi»), ma anche nel fatto che solo con una sorta di demagogia riesce a convincere i suoi compagni, tant'è vero che Dante definisce il suo discorso «orazion picciola»: il viaggio di Ulisse inizia con una censura, con la dimenticanza della sua dimensione umana, di un aspetto rilevante della sua umanità.
Come inizia, invece, il viaggio di Dante? Esattamente nel modo opposto, con il recupero della sua originaria dimensione umana. Infatti Dante, nella «selva oscura», è incamminato per raggiungere la cima del colle e, quando compaiono le tre fiere, non sa più che fare; sta per tornare indietro e, facendosigli incontro Virgilio, grida: «Miserere di me, qual che tu sii, od ombra od omo certo! (... ) Vedi la bestia per cu' io mi volsi: aiutami da lei (... )» e Virgilio: «A te convien tenere altro viaggio» (Inferno, I, 65-66, 88-89), è un'altra la strada che l'uomo deve percorrere, non quella da lui immaginata.
Ma perché Virgilio è lì? perché l'ha mandato Beatrice, per il suggerimento di Lucia, a sua volta mandata dalla Madonna; e, dice Beatrice a Virgilio, «amor mi mosse che mi fa parlare» (Inferno, II, 72).
Dunque il viaggio di Dante ha origine dall'amore, dall'esperienza affettiva originaria, giovanile, da una esperienza iniziata vent'anni prima e che ha costituito il primo movimento di Dante, non solo nella vita ma anche nella poesia, come narra nella Vita nova. All'origine del poema dantesco sta un ritorno all'origine, un recupero dell'evento fondamentale della sua vita, che ha prodotto la stessa struttura del poetare dantesco: l'evento dell'incontro con Beatrice.
Ed è ritornando su questo evento che si comprende l'origine della poesia dantesca e del suo cammino umano attraverso l'esistenza; è comunque vero che Dante avrebbe vissuto anche senza quell'incontro, ma è anche altrettanto vero che è quell'incontro che detta le condizioni di comprensione del significato della vita.
Infatti, cosa descrive Dante nella Vita nova? Il poeta racconta i suoi incontri con Beatrice e tutto quello che ne consegue fino alla sua morte; è il tentativo di rileggere un'esperienza. C'è un uomo che dopo aver vissuto una certa storia d'amore la ripercorre sul filo della memoria cercando di capire che cosa ha lasciato nella sua carne e nella sua coscienza.
Quindi, nella Vita nova, la poesia è un viaggio attraverso una esperienza vissuta. Dante scrive la Vita nova per capire ciò che ha vissuto, per capire il significato della sua esperienza, per capire la sententia, come dice Dante stesso. Dunque nella Vita nova Dante si pone come lettore della sua stessa vita, fa un bilancio: si volta indietro e cerca di capire che cosa è accaduto, non facendo l'elenco di quello che è successo, perché questo è impossibile, dal momento che la memoria si dimentica di tanti fatti della vita, mentre ne conserva il significato.
Che cosa sia accaduto, cosa si rivela nell'esperienza narrata nella Vita nova, Dante lo dice chiaramente nel primo e nel secondo capitolo: ha incontrato Beatrice, per la seconda volta, a diciotto anni, nove anni dopo il primo incontro, rimanendone sconvolto; affascinato da quella visione, si ritira in camera sua e lì, nel dormiveglia, ripensando a questa fanciulla, ha la visione di un signore, di un essere imponente, dall'aspetto pauroso e terribile, che mormora parole strane di cui non intende il senso, tranne che di alcune frasi, ed una era: «Ego dominus tuus», (io sono il tuo signore). Poi gli sembra di vedere Beatrice avvolta in un lenzuolo, in braccio a questo signore che le dà da mangiare il cuore del poeta; è una simbologia medioevale che vuole indicare che ormai Dante appartiene a quella donna. Questo significa che nell'istante del secondo incontro con Beatrice, Dante percepisce la prima e fondamentale legge della vita, quella che governa il mondo e il destino dell'uomo, cioè la signoria dell'amore, si instaura nella sua vita la certezza del primato dell'amore.
Dunque, Beatrice, della cui identità poco importa, in sostanza rappresenta quell'esperienza, riservata ad ogni uomo, che fa sorgere, nella coscienza di chi la vive, la comprensione del significato della realtà; questo accade, però, attraverso degli incontri, attraverso un innamoramento; è dentro un'affezione dell'anima che l'uomo capisce quale sia la tessitura della vita.
Ecco chi è Beatrice e non deve scandalizzare che Dante, sposato a Gemma Donati, abbia continuato a parlare di questa donna non rendendo certo un grandissimo onore a sua moglie. Non significa che lui tradisse la moglie, è che il primo impatto consapevole con la realtà è scaturito, nell'esperienza giovanile di Dante, nell'incontro con questa creatura.
Dunque l'incontro con Beatrice, che è autenticamente donna, è anzitutto l'esperienza che avvia Dante nel viaggio della comprensione della legge del significato della vita.
La figura di Beatrice inaugura il processo della scoperta che il senso della realtà, il senso della vita è l'amore: Dante lo comprende a diciotto anni e questo diventa il tema, il contenuto della sua poesia, come dichiara nel verso «la mia beatitudine consiste nel lodar la donna mia» la poesia, che è la vita, perché per un poeta scrivere è vivere, è il riconoscimento di qualche cosa da cui si dipende, è l'affermazione, l'espressione del valore a cui l'uomo consegna la propria vita, e da cui fa dipendere la propria vita.
Infatti è nell'incontro con Beatrice che Dante avrà il primo bagliore di autocoscienza, la prima percezione del proprio io, in quell'aspetto di fragilità, di dolore, di dedizione delicata e totale che è tipica di un animo giovanile.
Ma Beatrice muore e Dante «si tolse a me e diessi altrui», dice Beatrice per significare che ad un certo punto Dante non ha più riposto l'origine della sua poesia, e perciò della comprensione del significato della realtà, in una esperienza d'amore, ma ha riposto tutta la sua speranza nella filosofia separata dall'esperienza, separata dall'amore.
Cosa è successo ad Ulisse che ha seguito il suo desiderio, il suo ardore di conoscenza, strappando dalla sua dimensione umana quell'aspetto, quel mondo affettivo che componeva e rendeva integra la sua personalità? È la stessa cosa che accade a Dante dopo la morte di Beatrice: è come se Dante si dimenticasse l'originaria intuizione avuta, e cioè che la cultura, la conoscenza del mondo e del proprio destino non nascono da un sapere, ma da una esperienza d'amore, da una dedizione ad un incontro. La Divina Commedia è il ritorno a questa posizione originale, è il ritorno a Beatrice, come ebbe a dire il critico inglese Singleton; è il ritorno a Beatrice come condizione della vera autocoscienza dell'uomo, della vera coscienza che l'uomo ha di sé e della realtà.
Ecco perché all'origine del viaggio di Dante attraverso l'Inferno, il Purgatorio, e il Paradiso c'è un gesto di condivisione da parte di Beatrice al quale Dante corrisponde obbedendo, mettendosi umilmente, senza presunzione, a seguire la sua guida.
Dunque il cammino dell'uomo attraverso la vita verso la conquista della propria pienezza umano ha come condizione il fatto di mettersi sui passi di un altro, di seguire l'esperienza di magistero, un'esperienza di consapevolezza del significato della realtà; infatti Virgilio nella Divina Commedia è colui che continuamente richiama la coscienza dello scopo.
Dante si fermerebbe, si attarderebbe, spesso si perde, ha paura, starebbe per tornare indietro, mentre Virgilio è colui che rende credibile e desiderabile lo scopo di questo andare verso una meta, perché sa dove Dante è diretto.
La visione del sommo bene è al termine del viaggio, ma in qualche modo la sua presenza è in tutte le fasi del viaggio. Nell'Inferno, infatti, basta pronunciare il nome di Dio che Caronte si ferma («Caron, non ti crucciare: / vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare» (Inferno III, 94-96; cfr. anche Inferno, V, 22-24; VII, 10-12); non solo, ma la presenza di Dio è segnata in ogni passo di Dante, perché l'incontro con i dannati è l'incontro con i segni della giustizia di Dio, è l'incontro con l'evidenza di ciò che accade all'uomo quando cade nel peccato, cioè quando censura la propria umanità, quando dimentica di essere costituito per il bene.
Il Paradiso è invece il compimento, è il momento in cui Dante è alle soglie della meta del suo viaggio. Esso, dice Dante nel primo canto, è la dimora originaria dell'uomo: «folgore, fuggendo il proprio sito, / non corse come tu ch'ad esso riedi» (I, 92-93) (nessuna folgore staccandosi violentemente dal cielo è stata così rapida come tu sei rapido nel tornare alla tua vera dimora): la vera dimora dell'uomo non è la terra, la vera dimora è il Paradiso, cioè il rapporto con l'infinito: il rapporto con Dio definisce la tensione e l'attrazione per questo rapporto che spiega l'energia dell'uomo nella vita.
Sempre nel primo canto il poeta spiega che tutto si muove per questa attrazione che Dio esercita; persino la legge fisica che fa andare il fuoco verso l'alto è spiegata proprio nei termini di un'attrazione che Dio esercito verso tutte le cose; dunque, il Paradiso è la dimora, è l'uomo che ritorno alla sua origine, a ciò cui ha sempre aspirato.
Nel Paradiso ci sono anche altri intenti fondamentali che Dante esprime: la nozione della poesia al servizio della verità. Quando, nel XVII canto, Dante chiede a Cacciaguida, suo antenato, se tornato sulla terra debba dire la verità su quello che ha visto o stare zitto per evitare guai, Cacciaguida risponde: «Ma nondimen, rimossa ogni menzogna, / tutta tua vision fa manifesta; / e lascia pur grattar dov'è la rogna» (XVII, 127-129), cioè la poesia si deve piegare al servizio alla verità.
Anche nel secondo canto del Purgatorio ritorna questo concetto, laddove Casella, per rallegrare l'animo affranto di Dante, intona un canto che viene bruscamente interrotto dall'arrivo di Catone che rimprovera tutte le anime perché si sono fermate ad ascoltare la poesia, dimenticandosi di doversi purificare per poter ascendere al cielo.
Se c'è qualcosa di fronte a cui la poesia deve inchinarsi è la verità; la poesia deve porsi al servizio della verità, anzi essa è la strada attraverso cui si giunge alla verità, infatti è attraverso la poesia della Divina Commedia che Dante, e il lettore con lui, giunge all'incontro con il sommo bene, con il fine della vita. Tuttavia nel poema dantesco, e in particolare nella cantica del Paradiso, c'è anche l'affermazione dello scacco della poesia, perché essa ad un certo punto deve arrendersi, deve limitarsi ad accompagnare l'uomo fino alle soglie del bene, della contemplazione della verità che appaga ogni desiderio umano: questo è il tema di tutto il XXXIII canto del Paradiso, quando Dante ripetutamente afferma che la poesia deve cedere il posto a qualcosa d'altro.
Dunque la Divina Commedia, e in particolare il Paradiso, è anche una riflessione sul significato della poesia. Tutta la letteratura italiana deve fare i conti con Dante proprio per questa coscienza grandiosa che Dante ebbe dell'importanza della poesia, come strada verso la verità: la poesia non nasce da una riflessione intellettuale, non nasce come manifesto, come programma teorico, ma nasce da un'esperienza, da un incontro, e si pone al servizio di queste esperienze, di questo incontro, come recupero dell'evento fondamentale della vita. Soprattutto la poesia deve servire la verità e deve onestamente proclamare il suo limite di fronte ad un qualcosa di più grande, ad una esperienza più grande, all'esperienza del «trasumanar».
Infatti, il punto davanti al quale la poesia si arresta è la visione di Dio, descritto nel XXXIII canto, ma la visione di Dio in realtà accade già, come preannuncio profetico, come albore iniziale, in ogni fase del viaggio di Dante, perché il segno di Dio è presente in tutti i passi che Dante compie.
Se pensate ad una osservazione del critico francese Berchet, quando dice che ogni opera d'arte, o meglio l'insieme dei segni che la compongono, nel caso della poesia l'insieme delle parole, tende ad indicare, a evidenziare anche metaforicamente, in un certo modo occultandolo, un centro verso cui l'opera d'arte scivola, risulta comprensibile come tutta la Divina Commedia sia costruita come tensione del linguaggio verso un punto che è l'origine di tutti i linguaggi, verso il nome di Dio.
Tant'è vero che Dante proprio nell'Epistola a Cangrande della Scala, dichiara esplicitamente che egli ha modellato il linguaggio della Divina Commedia sul linguaggio biblico, la cui caratteristica è innanzitutto quella di essere metaforico: così, basandosi sulla storia del popolo ebraico, in realtà parla della storia di ogni uomo e del suo viaggio verso la salvezza. In secondo luogo la caratteristica del linguaggio biblico è quella di non essere solo mera parola, ma parola che apre ad una esperienza, all'esperienza della fede, all'esperienza del rapporto dell'uomo con l'infinito, con la divinità: questo sta a significare che la poesia, secondo Dante, da un lato rivela questo nome, e quindi la realtà che questo nome significa, dall'altro la poesia deve cedere il passo all'esperienza concreta dell'incontro dell'uomo con questo mondo.
Qual è la visione che Dante ci presenta di Dio? Attraverso i monti dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, che rappresentano tutta la storia, Dante giunge alla visione della Trinità, ma soprattutto il suo sguardo viene attratto e volutamente potenziato nella contemplazione di uno dei tre cerchi della Trinità e precisamente quello che contiene l'effigie di Cristo; dunque al termine del suo itinerario, Dante ha la visione dell'effigie umana, cioè dell'uomo vero, Cristo.
Cosa è stato dunque il viaggio di Dante se non il viaggio dall'uomo, così come si riconosce nella sua esperienza, fragile, smarrito, incerto, disperato, fino all'uomo nella sua pienezza, quella pienezza di Cristo che è pegno, anticipazione della pienezza di ogni uomo? «Trasumanar significar per verba non si poria, / però l'essemplo basti a cui esperienza grazia serba».
La grazia di Dio riserva ad ogni uomo questa esperienza del «trasumanar», dell'andare al di là dell'umano, cioè della vittoria dell'uomo sulla sua infelicità, sul suo smarrimento, sulla sua paura, e sulla sua disperazione.
Dunque la vita, simboleggiata nella metafora del viaggio attraverso le tre cantiche, ha un significato: la vita è il tempo dato all'uomo per la conquista della vera immagine di sé.