Ludovico Ariosto: la vita e le opere

Il Per-Corso e i percorsi.

Schede di revisione di letteratura italiana ed europea
Autore:
Filippetti, Roberto
Fonte:
www.itacalibri.it

Il tema della «follia»

La follia: questo è il tema dell'opera letteraria più alta del nostro Rinascimento: l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto, in cui si narra di come il celebre paladino, «inamorato della bella Angelica», «per amor venne in furore e matto».

Orlando prima dell'Ariosto

La Chanson de Roland, scritta in Francia attorno al 1100, all'epoca della Prima Crociata, aveva dato vita lungo il Duecento e il Trecento ad una lunga tradizione: soprattutto in Spagna ed Italia, le gesta dei paladini venivano cantate nei luoghi di tappa dei pellegrinaggi verso Compostela e verso Roma.
Roland - Don Roldán al di là dei Pirenei e Orlando al di qua delle Alpi - è protagonista di sempre nuove avventure, nelle quali egli permane figura esemplare per fede, saggezza, coraggio e purezza: secondo Turpino (pseudoautore della Historia Karoli Magni et Rotholandi, a cui sempre i giullari faranno riferimento), egli non ha mai avvicinato una donna. Mentre le gesta di Orlando e di suo cugino Rinaldo, monopolizzavano l'attenzione del popolo, gli amori di Ginevra e Isotta, e tutte le vicende del «ciclo di Bretagna», con il re Artù e la Tavola Rotonda, erano preferiti da nobili e dame nelle corti italiane.
E' nella seconda metà del Quattrocento che, a Firenze e Ferrara - le due corti più raffinate della Penisola -, le storie di Orlando tornano ad avere fortuna tra i colti, grazie alle opere del Pulci e soprattutto del Boiardo.
Questi, rovesciando la tradizione plurisecolare codificata da Turpino, presenta al suo pubblico un inusitato Orlando innamorato, e così si giustifica: «Non vi par già, signor, meraviglioso / odir cantar de Orlando inamorato, / ché qualunche nel mondo è più orgoglioso, / è da Amor vinto, al tutto subiugato».
Ma Boiardo appartiene ancora all'autunno del Medioevo: se per un verso è cultore di studi umanistici e gran conoscitore dei Classici, per altro verso è pieno di commossa nostalgia per il mondo degli antichi cavalieri.
Nella pagina giustamente famosa del duello tra Orlando e Agricane e della morte di quest'ultimo (Parte 1, canti XVIII-XIX), come annota il Pazzaglia, «Boiardo riesce ad aderire intimamente allo spirito delle antiche canzoni di gesta, a unire strettamente il tema religioso e quello guerriero».
Orlando prova pietà per l'avversario: «più di te me rincresce in veritate, / che serai morto, e non sei cristiano, / et andarai tra l'anime dannate; / piglia battesmo, e lasciarotte andare». Poi, scesa la sera, i due ragionano serenamente «come fosse tra loro antica pace».
Orlando guarda il «cel stellato» e dice: «Questo che or vediamo, è un bel lavoro, / che fece la divina monarchia; / e la luna d'argento e stelle d'oro, / e la luce del giorno, e il sol lucente. / Dio tutto ha fatto per la umana gente».
Agricane confessa allora la propria ignoranza in materia di fede. Dura la replica del conte: «è simile a un bove, a un sasso a un legno, / chi non pensa all'eterno Creatore».
Dopo il tremendo duello, anche ad Agricane - ormai morente - è dato di mendicare la Grazia. Egli così si rivolge al paladino cristiano: «Io credo nel tuo Dio, che morì in croce. / Batteggiame, barone, alla fontana / prima ch'io perda in tutto la favella; / e se mia vita è stata iniqua e strana, / non sia la morte almen de Dio ribella. / Lui, che venne a salvar la gente umana, / l'anima mia ricoglia tapinella! / Ben me confesso che molto peccai, / ma sua misericordia è grande assai».
Ora anche lui, come prima Orlando, è capace di tenere umilmente lo sguardo fisso al cielo, emblema del Destino ultima: «Piangea quel re, che fu cotanto fiero, / e tenia il viso al cel sempre voltato». Quindi il paladino, avendo anch'egli «pien de lacrime la faccia», lo battezza.

Un poeta "misterioso"

Boiardo muore nel 1494, e lascia interrotto il poema alla vigilia della decisiva battaglia tra cristiani e saraceni.
E' proprio questo il punto di partenza da cui, una decina d'anni dopo, Ariosto prende le mosse per il suo Orlando furioso. «Una continuazione - scrive Italo Calvino - che fu subito tutt'altra cosa: dalla ruvida scorza quattrocentesca il Cinquecento esplode come una lussureggiante vegetazione carica di fiori e di frutti». E anche nei confronti del passato medievale, diverso è l'atteggiamento di Ariosto: ormai disincantato. Il giudizio è ancora di Calvino: «Pur vedendo le gesta dei suoi eroi attraverso l'ironia e la trasfigurazione favolosa, egli non tende mai a sminuire le virtù cavalleresche, non abbassa mai la statura umana che quegli ideali presuppongono, anche se a lui ormai pare non resti altro che farne pretesto per un gioco grandioso e appassionante. Ariosto sembra un poeta limpido, ilare e senza problemi, eppure resta misterioso: nella sua ostinata maestria a costruire ottave su ottave sembra occupato soprattutto a nascondere se stesso… Quello d'Ariosto è il gioco d'una società che si sente elaboratrice e depositaria di una visione del mondo, ma sente anche farsi il vuoto sotto i suoi piedi, tra scricchiolii di terremoto».
Italo Calvino, spirito consentaneo all'Ariosto, consapevole che viviamo oggi in un tempo di svolta epocale, tanto simile al primo Cinquecento, pare essersi sintonizzato sulla lunghezza d'onda di tutta la critica recente.
Lungo l'Ottocento e la prima metà del Novecento, il Furioso era stato letto come perfetta espressione dell'armonia e della serenità rinascimentali. Da Foscolo a De Sanctis, da Croce a Momigliano e Binni, dell'Ariosto era stata sottolineata la virtù fantastica, svincolata dalla realtà oggettiva; «il culto della bella forma, il sentimento dell'arte», indifferente al contenuto; la «fantasia che corre e s'incanta»; l'evasione dal mondo reale per edificare un «sopramondo» perfetto, nel quale il naturalismo rinascimentale proietta la propria aspirazione alla serenità.
Ma, a partire da un saggio del 1954 di Lanfranco Caretti, la critica recente (Segre, Carne-Ross, Calvino, Saccone, Zatti, Ferroni, Baldi) ha negato il carattere evasivo del Furioso e dimostrato come l'autore vi documenti la propria volontà di conoscenza del reale. Sotto le apparenze limpide ed armoniose, c'è del mistero; sotto il gioco fantastico, c'è la serissima constatazione di un incombente terremoto reale; sotto il razionalismo naturalistico cova il germe della follia.