Intervista allo scultore Alberto Calabrese, il “Medardo Rosso della Brianza”

Alberto Calabrese è un artista speciale anche perché da quando ha 13 anni è non vedente. Residente dalla nascita a Nova (provincia di Monza e Brianza), lo scultore 42enne ha esposto le sue opere in tre mostre personali e in numerose rassegne collettive, da Biassono a Cesano Maderno, alla saletta reale della stazione di Monza. Una passione, quella per l’arte, che lo accompagna da quando era bambino, anche se come scultore è nato a 23 anni compiuti, quando aveva perso la vista da dieci.
Autore:
Vernizzi, Pietro
Fonte:
CulturaCattolica.it

E’ stato soprannominato il Medardo Rosso della Brianza, per lo stile delle sue sculture teso più a cogliere l’essenziale che a rifinire i particolari in modo esatto. Ma Alberto Calabrese è un artista speciale anche perché da quando ha 13 anni è non vedente. Residente dalla nascita a Nova (provincia di Monza e Brianza), lo scultore 42enne ha esposto le sue opere in tre mostre personali e in numerose rassegne collettive, da Biassono a Cesano Maderno, alla saletta reale della stazione di Monza. Una passione, quella per l’arte, che lo accompagna da quando era bambino, anche se come scultore è nato a 23 anni compiuti, quando aveva perso la vista da dieci. «I miei materiali preferiti - racconta Calabrese - sono creta, terra refrattaria e gres (una ceramica a pasta compatta, Ndr). Una specie di scelta obbligata perché quando modello l’impronta che do deve rimanere». Ma a stupire chi lo incontra è soprattutto che il suo handicap è diventato con il tempo la forza della sua arte. «A differenza di chi vede ho una manualità più aderente alla realtà – rivela –, perché il tatto per me è il modo con cui leggo. Il 98% delle sensazioni arriva normalmente dalla vista e così ci si dimentica di avere altri quattro sensi. Mentre la mia abilità è stata rubare il più che posso dal mio stato di non vedente».
Non per niente una delle esperienze più sorprendenti per chi assiste alle mostre di Calabrese è il fatto che le sue opere non sono concepite solo per essere guardate, ma innanzitutto toccate. «La maggior parte degli scultori sono gelosi dei loro lavori – osserva -, mentre io non vivo l’arte come una forma di possesso. Non c’è niente di meglio che toccare, un’opera deve essere toccata e letta, ascoltata con il tatto, perché solo così è possibile percepirne la vera profondità, prospettiva e consistenza». Anche se la prima reazione di molti visitatori è quella di restare un po’ sconcertati. «Di fronte a questa possibilità di solito mi chiedono: “Posso veramente?”. E il loro imbarazzo li porta il più delle volte a non capire l’opera, tanto che quando sono presente li guido personalmente nella comprensione e nell’esplorazione della scultura attraverso il tatto». Il soggetto preferito da Calabrese sono i volti. «Per me la faccia di una persona è l’elemento fisico più nascosto – spiega –, perché quando mi accompagnano mi rendo conto se uno è alto o basso, grasso o magro, ma non mi sono mai preso la libertà di toccare il viso degli altri. E dunque i miei “Volti” sono come un cesellare la parte mancante di un puzzle, o dare un volto al mio inconscio».
Con un’attenzione imprevedibile a quello che gli accade intorno, a partire dall’attualità. «Un mio lavoro è dedicato al terremoto di San Giuliano di Puglia e un altro all’11 settembre, due opere nelle quali descrivo la disperazione per il crollo dell’elemento umano. Dentro le mie sculture – racconta infatti – c’è l’umano vissuto in tutte le sue forme». Fino al suo momento culminante, l’Incarnazione, che per Calabrese non è però scissa ma calata nell’attualità. «Nell’opera sull’11 settembre ci sono le Torri gemelle che formano un’unica massa con Cristo, che compare in mezzo, tenendo saldamente fermi i lembi delle Twin towers, come per preservarle dalla caduta. Ma anche allontanandole tra loro, come per separare il bene dal male». Diverse le crocifissioni, con la scelta singolare di rappresentare Gesù senza la croce. «Non certo – precisa – per sminuire la drammaticità di quell’evento, ma perché a me interessa far vedere questo elemento che è Cristo che esce dalla materia che è l’uomo, senza la necessità di introdurre altri oggetti nella raffigurazione».
Tanti e diversi tra loro gli stimoli da cui nasce l’arte di Calabrese. «La vita offre un bagaglio di circostanze legate all’umore, alla psiche, alle emozioni, insomma al bello e al brutto, che poi ingabbiamo nell’inconscio. Tanto che quando inizio una scultura non mi pongo mai il problema di che cosa voglio esprimere, basta avere un punto di partenza e tutto questo, vicino o lontano nel tempo, emerge. Anche se forse la situazione ideale per realizzare un’opera è quando sono desideroso di qualcosa che ho dentro e che non viene, perché in quei momenti l’arte esplode». Anche se tra i vari spunti Alberto non può contarne uno che di solito è essenziale: il confronto con gli artisti del passato. «Al di là di pochi ricordi di quando ero bambino, io la bellezza di una scultura fatta da qualcun altro non posso vederla – confessa -. Mi è capitato in rarissime circostanze di poter fruire da cieco di una mostra d’arte. Nel 1995 al palazzo Reale di Milano ci fu la rassegna “La Terra dei Moai” con le antichissime statue di pietra realizzate dagli uomini dell’isola di Pasqua. Quell’esperienza mi diede il la per tutti i “Volti” che ho compiuto in seguito. Da un foglio di terra refrattaria di 40 per 10 centimetri realizzai un volto tribale dove c’era tutta la carica umana di un essere che emerge dalla terra. In precedenza avevo portato a termine altre sculture, ma quella era “una spanna di King Kong” al di sopra delle altre».