Thomas Covenant: Conclusione - la serietà del male e la redenzione - 17
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La serietà del male
Stephen Donaldson ha saputo in modo magistrale porre il problema del male in tutta la sua gravità. Egli sottolinea con molta forza, pur senza tematizzarlo, il peccato originale, cioè la condizione di peccatore connaturata a ciascun uomo. Egli pone l’origine del male in qualcosa di esterno all’uomo, ma tuttavia con quel grido “guarite i vostri cuori!” che è come la sintesi delle prime cronache, segnala l’esigenza di combatterlo anzitutto dentro di sé. Infatti senza questa consapevolezza del proprio male, l’uomo diventa simile a ciò che odia.
Egli non si avventura, come abbiamo visto, a discutere i temi ontologici, i cui termini sono lasciati imprecisi. Da dove nasca il male, se l’avversario del Creatore sia una realtà distinta dal Creatore stesso o una sua parte, se sia un suo pari, e da dove abbia origine, sono domande lasciate senza risposta. Ugualmente, i limiti cui sembra sottoposto lo stesso Creatore non sono giustificati. Il “Creatore” della Landa, come abbiamo sottolineato, è più un demiurgo che un dio.
Tuttavia, la vera forza dell’opera di Donaldson è la centralità della lotta contro il male, ed è interessante il modo in cui egli sottolinea come anche una volontà macchiata dal peccato possa, e debba, decidersi per il bene; come la fiducia e l’amicizia siano l’unica via per trarre fuori il bene, il disprezzo e la violenza scaturigine ed esito del male.
Esattamente come nella Rivelazione, la natura del male è essenzialmente il disprezzo, la visione pessimistica della realtà e dell’uomo. Un pessimismo attivo, che origina dal “pensare male” dell’altro e conduce ad agire perché l’altro, facendo il male, confermi il pregiudizio negativo che su di esso si aveva. L’invidia del bene è la molla segreta che muove il malvagio a dimostrare che egli non è peggiore degli altri, dal momento che tutti sono malvagi e che tutto è degno del disprezzo che egli ha per tutta la realtà. All’opposto, il bene muove dalla fiducia nell’altro, fiducia che lascia all’altro lo spazio di agire liberamente.
Il bene ed il male sono enfatizzati con forza, nella bellezza della Landa e nella grandezza morale dei suoi abitanti, nella drammatica realtà della lebbra e della colpa che tormenta il protagonista.
In un mondo che nega la realtà del male e che banalizza la responsabilità morale, i romanzi di Donaldson sono come un pugno nello stomaco, e ripropongono con forza la serietà dell’esistenza. Anzi, a tal punto sottolineano il dramma del male, da parere a volte diffondere un messaggio di sola disperazione.
La redenzione
Dove attingere la salvezza? Questo è il vero interrogativo della saga. Giungiamo quindi al cuore del nostro confronto.
Abbiamo già sottolineato un aspetto interessante: il bene, cioè la salvezza, non può assolutamente essere pensato come esito dell’azione dell’uomo. L’aver compreso questo, come abbiamo sottolineato a suo luogo, è la vera grandezza del Sire Mhoram. Se il bene fosse esito dell’azione umana, non esisterebbe, perché l’uomo si scopre fondamentalmente incapace di fare il bene: il male è in agguato nelle sue passioni così come nei suoi limiti. Si fa il male per cattiva volontà, si fa il male perché trascinati dalle proprie emozioni, anche buone in origine, si fa il male per errore, per equivoco, per incapacità di comprendere le situazioni o di calcolare le conseguenze delle proprie scelte. In ogni caso, l’uomo è troppo inferiore a se stesso per poter essere causa di salvezza. La Rivelazione direbbe che egli è decaduto: rimane in lui l’aspirazione ad una condizione che non è più la sua.
Anche l’insufficienza del perdono che i personaggi possono scambiarsi è un indizio della necessità della redenzione. Ciò che i colpevoli desiderano non è appena sentirsi dire “ti perdono”; quello che desiderano è che il male che hanno fatto sia realmente cancellato; ma questo nel romanzo non è possibile. Il perdono umano cancella le conseguenze sociali del peccato, reintegra le relazioni distrutte od offuscate, dá al peccatore una nuova opportunità di azione, ma non può cancellare la realtà del male compiuto. Infatti, per cancellare il peccato occorre la stessa infinita energia capace di trarre dal nulla tutte le cose: solo il creatore può de-creare; come ha fatto sì che le cose fossero, così può far si che il male fatto non sia più.[1] Persino il Creatore della Landa sarebbe troppo debole per perdonare davvero, seppure qualcuno si rivolgesse a lui, cosa che non accade data la lontananza del Creatore dalla Landa.
La salvezza è esito di un rischio corso dal Creatore: egli sceglie una creatura, non particolarmente forte o dotata, ma malgrado questo è ad essa che è data la responsabilità della salvezza o della perdizione di tutti. Anche secondo la rivelazione “Dio non ha risparmiato Suo Figlio”; anzi Dio non solo ha corso il rischio, ma non ha esitato a lasciarsi sconfiggere, nella maniera più totale, sulla croce. Simbolo adesso della Sua totale vittoria, ma certamente con un rovesciamento che nessun romanzo avrebbe mai osato proporre.
Thomas Covenant l’Incredulo è un redentore, anche se la sua incredulità è appunto l’incredulità di poter essere, lui un lebbroso, un impuro, il redentore della Landa. Il redentore è tale per scelta, arbitraria si direbbe, del Creatore. Hyle Troy vorrebbe ben volentieri essere il redentore, ma a lui non è dato, non è il prescelto. Covenant non ne vuole sapere di essere il redentore, e invece è proprio a lui che tocca questa responsabilità.
Il Creatore agisce, sia nel romanzo che secondo la Rivelazione[2], attraverso una elezione, una scelta. La dinamica dell’elezione implica sempre un rischio, perché implica la libertà, ed i limiti[3], dell’eletto.
La caratteristica principale di Covenant che lo rende idoneo ad essere il salvatore della Landa è proprio la caratteristica che a prima vista più lo rende diverso dal Salvatore Gesù Cristo: egli è un peccatore. Il motivo per cui è scelto è la sua consapevolezza di essere segnato dal male (la lebbra prima, la colpa poi) ed il suo “essere saldo”, cioè la sua caparbietà di non cedere al male che pure sa di avere incancellabilmente in sé. Cristo, essendo senza colpa, si è fatto solidale con la colpa dell’uomo, per poterlo rendere solidale alla sua vittoria sulla colpa e sulla morte che ne è la conseguenza.
L’impossibilità per un peccatore di essere salvezza è segnalata nel romanzo dallo sdoppiamento del personaggio positivo. Accanto a Covenant c’è infatti il Gigante Seguischiuma, identificato con l’Unico Puro atteso dalla leggenda dei jheherrin. Grazie alla sua presenza Covenant giunge all’ultimo duello e grazie alla sua risata di pura gioia sconfigge lo Spregiatore. Risata che sarebbe stata impensabile nella sua condizione precedente.
La leggenda dei jheherrin potrebbe essere considerata in perfetto stile profetico: attende infatti la nascita di un essere del tutto diverso dagli altri. La sua realizzazione però è diversa: l’Unico Puro non è nato tale. Il gigante Seguischiuma diventa l’Unico Puro grazie ad una purificazione, anche se essa si pone come una morte e risurrezione, quindi come una nuova nascita. Attraverso il fuoco purificatore, muore il gigante compromesso con il male ed emerge l’Unico Puro.
La purificazione è prodotta da due fattori: la sofferenza e la disponibilità a sacrificare la vita alle esigenze del bene. Attraverso il dolore e la morte, accettate volontariamente, Seguischiuma accede alla redenzione. Redenzione che è però, a differenza della Passione di Cristo, totalmente personale; Seguischiuma redime soltanto se stesso dalle proprie colpe. La sua condizione di Unico Puro, però, lo abilita poi a emettere quella risata di pura gioia di vivere che spezza la potenza dello Spregiatore.
Vi sono qui delle intuizioni, o forse delle reminiscenze, fondamentali. Tuttavia l’atmosfera dei romanzi rimane cupa, perché non esiste una dimensione veramente trascendente. A dispetto della vittoria di Covenant nel duello con lo Spregiatore, neppure il più selvaggio sforzo di volontà può far uscire l’uomo nuovo dalla pelle del vecchio[4].
Il Creatore si prende cura della sua creazione, ma con un ultimo distacco, come un artigiano della sua opera, non come lo Sposo della sua sposa. Egli rimane troppo lontano e troppo debole. La creazione rimane abbandonata al male. I protagonisti cercano il perdono, ma a causa della sua lontananza possono ottenerlo solo gli uni dagli altri, ed esso non cancella comunque il male fatto e le sue funeste conseguenze, tanto è vero che Covenant non accetta dal Creatore la guarigione dalla lebbra perché la rivelazione del Creatore della Landa non risolve il mistero del male ed egli continua a cercarne la soluzione, e la lebbra è l’urgenza del problema nella sua stessa carne.
La creazione dal nulla segnala l’onnipotenza divina, ed occorre la medesima onnipotenza per annichilire il male. Creare dal nulla e rimandare nel nulla sono azioni che solo Dio può compiere. Il Creatore della Landa è un dio minore: crea a partire da una materia preesistente[5], secondo leggi che lo superano, e quindi non ha neppure il potere di perdonare i peccati.
In sintesi c’è una nostalgia dell’incarnazione nella figura di Covenant, scelto dal Creatore per combattere il male. Ma è una incarnazione incompiuta: il dio rimane fuori dalla sua creazione, e per questo il male non può essere veramente cancellato. La morte può essere accettata, in qualche modo fatta servire agli ideali che si perseguono, ma non può essere sconfitta.
La lettura e l’analisi di questo ciclo fantasy conferma così la diagnosi del nostro tempo come “orfano di Dio”, e la difficoltà che l’uomo moderno ha di riconoscere ed accettare la presenza di Dio. Ugualmente se la cittadina in cui abita ed opera “Buffy l’ammazzavampiri” è costruita sulla “bocca dell’inferno” abitato da demoni e vampiri, il cielo è invece vuoto. Rimane la nostalgia del Padre assente, ma negata e respinta dalla volontà di autorealizzazione e dalla presunzione di poter operare il bene da sé. Covenant pone pesantemente in crisi quest’ultimo aspetto, ma non riesce a colmare la distanza della lontananza di Dio.
La cifra finale dell’opera di Donaldson è un grido, un grido drammatico la cui risposta è solo Gesù Cristo, l’Unico Puro che è Dio stesso che si prende cura della creazione ferita e si lascia ferire per versare dal costato trafitto quell’energia che attraverso la storia cancella le colpe e rende gli uomini capaci di compiere il bene.
Note
[1] E’ la teoria espressa da S. Anselmo: cfr. Cur Deus homo, PL 158, pag. 360-432.
[2] Pensiamo innanzitutto ad Abramo, chiamato ad essere padre di un nuovo popolo; ma tutti i re, gli eroi ed i profeti dell’Antico Testamento, come Maria, gli Apostoli e i discepoli nel Nuovo, sono tali solo ad opera della chiamata di Dio che li elegge.
[3] Pensiamo all’obiezione di Mosè, Es 6, 30, o a quella dei profeti, Is 6,5, o, meglio ancora Ger 1,6-7, per limitarci a qualche esempio.
[4] Cfr AR 278 e Ef 4, 22-24.
[5] Come accade in Platone, Timeo, 41 A-D (v anche ss.).