L’opera
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Detto - come già sopra - che l'Autore mette in musica unicamente i testi dell'Ordinario, mille sarebbero i particolari da mettere in luce all'interno delle cinque parti che formano l'opera completa; lavoro di una ricchezza e di una sapienza costruttiva che - ad un primo ascolto - possono anche risultare non immediatamente evidenti.
Cercheremo quindi di evidenziare alcuni aspetti di carattere globale che ci possano aiutare a percepire la Messa di Stravinskij nella sua assoluta originalità, e in tutto l'enorme valore artistico che le è proprio. Chi vorrà poi dedicare del tempo ad un ripetuto ascolto - o chi vorrà prendere in mano la partitura, facilmente rinvenibile nei negozi musicali - scoprirà più nel dettaglio tutta l'enorme sovrabbondanza della fantasia di questo campione del Novecento musicale.
Iniziamo dalla formazione impiegata. Ci troviamo di fronte ad un coro misto a quattro voci che in brevi tratti si divide in cinque, o anche sei, parti. La raccomandazione dell'Autore è che la parte più acuta - quella dei soprani - sia affidata a voci maschili di fanciulli (voci bianche). Questa scelta, non sempre rispettata nelle esecuzioni concertistiche, è il primo indizio del desiderio di freddezza di cui si è già detto. Le voci bianche hanno un timbro limpido e possiedono una ricca sonorità, ma sono prive del patetismo di cui le voci femminili sono naturalmente cariche.
Il coro è accompagnato - ma meglio sarebbe dire, affiancato - da un doppio quintetto di fiati. Il primo quintetto è formato da due oboi, un corno inglese e due fagotti, tutti strumenti appartenenti alla classe dei cosiddetti legni. Il secondo da due trombe, due tromboni tenore e un trombone basso, tutti ottoni. Chi conosce un poco gli strumenti musicali tradizionali, noterà che Stravinskij fa una scelta che già fu di Mozart (ancora lui!) nella Grande Messa già citata: quella di escludere il timbro sensuale dei clarinetti a favore di quello più nasale degli oboi, e di non utilizzare i corni - dal suono caldo e dall'enorme estensione - privilegiando i tromboni. Il risultato è estremamente significativo: un timbro arcaico e distante, che (negli oboi) ricorda il Barocco tedesco e (nei tromboni) si richiama alla grande tradizione veneziana - tardo rinascimentale e barocca - della Basilica di S. Marco dove, accanto agli organi, i tromboni univano la loro voce a quella dei cori battenti, cioè spazialmente contrapposti, in una sorta di stereofonia ante litteram dagli effetti stupefacenti e maestosi.
Se consideriamo che spesso i due gruppi strumentali suonano separatamente, ci troviamo di fronte ad una sorta di triplo coro (anche questo di veneziana memoria) in parte umano, in parte artificiale: aria, voci, legno, metallo, uniti in una lode concorde. Il suono del mondo, insomma; un mondo con lo sguardo rivolto al suo Creatore.
Stravinskij stesso ci informa che i dieci strumenti sono destinati ad accordare il coro; probabilmente non solo nel senso più banale di "suggerire l'intonazione ai coristi" (compito che indubbiamente svolge), ma in quello più sostanziale di colorire timbricamente - e quindi espressivamente - l'impasto vocale. Il suono privo di vibrato - e, quindi, di patetismo - le dinamiche (i livelli di intensità sonora) piatte e l'utilizzo di un legato e di uno staccato assoluti, senza sfumature, tendono a evocare il suono di un organo primitivo, "raffreddando" decisamente il clima espressivo.
In questo senso, possiamo senz'altro dire che la doppia formazione strumentale rappresenta l'aspetto musicalmente più oggettivo (!) del complesso. Al coro sono invece affidati gli elementi di maggiore e più immediata espressività: le voci si dipanano in figurazioni piuttosto lineari, chiaramente ispirate alla polifonia dei grandi maestri rinascimentali (Palestrina, innanzitutto) e alle scarne e ossessive cellule ritmo-melodiche della polifonia tardo medioevale. Un ricercato ritorno all'antico, insomma; ad una semplicità (o "primitività", secondo le parole dell'Autore) sentita come patria e salvaguardia dell'autentica fede, di fronte a ciò che veniva percepito come generalizzata decadenza della musica sacra.
Non sarà inutile ricordare che il termine oggettività è uno di quelli più frequentemente utilizzati - al limite dell'abuso - nei confronti della produzione stravinskiana. Troppo spesso è stato inteso nel senso (improprio) di neutro, anti-sentimentale, ma è il compositore stesso a sgombrare il campo da ogni equivoco. Per Stravinskij, il carattere proprio della musica non è l'espressione, bensì la costruzione. Egli non nega certo il potere di evocare idee e sentimenti che ogni brano musicale degno di tale nome possiede, ma questo costituisce per lui un aspetto secondario (nel senso di non originario, derivato): in definitiva, di superficie. Questa "ovvia" implicazione espressiva è in relazione con la capacità della musica di modellare il tempo psicologico, soggettivo, suscitando analogicamente in noi un vasto mondo di immagini e sensazioni. Ma è la costruzione (si potrebbe dire: la forma) che ci mette in contatto con un tempo più profondo e originario (più "Ur-" direbbero i tedeschi); con ciò che il compositore russo definisce tempo ontologico. Secondo l'Autore, il contatto con questo tempo profondo è in grado di generare in noi uno stato di euforia, o meglio di "calma dinamica".
Comprendiamo finalmente, così, che il suo obiettivo di freddezza non è nient'altro che l'espressione del desiderio di prendere per mano l'ascoltatore e di condurlo al centro della musica, verso quel misterioso tempo ontologico. Per usare le parole di Stravinskij, "mettere l'ascoltatore in condizione di partecipare all'universale realtà dell'Essere assoluto".
Venendo ora alla concretezza della Messa, scorriamone rapidamente i cinque tempi evidenziandone gli elementi di una qualche importanza (senza alcuna pretesa di esaustività) per un'iniziale comprensione dell'opera.
Il Kyrie si apre con il doppio quintetto di fiati che, partendo in successione dagli oboi per arrivare al trombone basso, enunciano su più ottave un bicordo DO-MI bemolle, allusivo forse della tonalità di Do minore (il coro, pochi secondi dopo, intonerà quelle stesse note). A questo riguardo, Stravinskij stesso ebbe modo di precisare più volte che la sua musica, piuttosto che a-tonale, era anti-tonale. Tralasceremo quindi (anche per ragioni di brevità) ogni riferimento al piano armonico dell'opera, che pur costituirebbe un campo di indagine interessante e promettente.
Ci interessa invece notare il modo in cui vengono suonate quelle prime note: ogni nota porta l'indicazione poco sfp (= poco sforzando, piano). L'effetto è quello di un'improvvisa percussione, seguita immediatamente da una coda di suono tenuto, quasi un riverbero. Come non pensare a rintocchi di campana? Come non intravedere le pianure sterminate della Santa Madre Russia, e immaginare il nostro Igor con il naso all'insù sotto le navate delle chiese ortodosse della sua infanzia? Questo effetto musicale (o figura) si riproporrà più volte nel corso del Kyrie, anche nella variante di un arpeggio discendente distribuito tra tutti gli strumenti del doppio quintetto. Ma lo ritroveremo anche in significativi punti-chiave delle sezioni successive.
Nel Gloria, per esempio, dove il "rintocco" richiamerà inesorabilmente l'attenzione dell'ascoltatore introducendo, e separando tra loro, le parole "Quoniam Tu solus Sanctus, Tu solus Dominus, Tu solus Altissimus, Jesu Christe" (che costituiscono il vertice concettuale del testo sacro).
E all'inizio del Sanctus, dove legni e ottoni si alternano nell'introdurre e nel concludere gli interventi di due tenori (e del coro) che enunciano selvaggiamente la Triplice Lode. E poi una ventina di secondi più avanti, quando i tromboni e le trombe scandiscono con profondi e inquietanti rintocchi (prevalentemente a distanza di quinta: uno degli intervalli acusticamente perfetti, che i pitagorici prima, e il Medioevo poi, mettevano in relazione con la perfezione dei rapporti numerici che reggono l'Universo) l'esposizione di fuga che in una figurata "ascesa al cielo" - dal MI di un basso solista, su fino al SOL estremo di un soprano - incarna il testo "Pleni sunt coeli et terra gloria tua". O ancora quando un breve ma evidentissimo rintocco introduce all'imprevedibile tenerezza del "Benedictus".
Non possiamo certo tacere del Credo che costituisce - dal punto di vista materiale, come pure nelle intenzioni formali del compositore - il centro dell'intera Messa. Al punto di maggior densità teologica (ricordiamo: "…c'è molto da credere") corrisponde, inaspettatamente, la maggior semplicità di scrittura. Le quattro voci enunciano tutte insieme il testo, senza ripetizioni, sullo sfondo di accordi tenuti dei fiati (veramente il suono di una sorta di organo arcaico) in un piano uniforme, senza alcuna enfasi. In questo contesto le tre brevi sottolineature sonore (unicamente poco più f) delle parole "Ecclesiam… peccatorum… mortuorum" balzano violentemente in primo piano, come scagliate interrogativamente contro l'inerzia della coscienza. Questa compatta uniformità di andamento delle voci ricorrerà in altre sezioni dell'opera, eloquente immagine sonora di un'umanità implorante (come nel Kyrie iniziale, e nell'Agnus Dei conclusivo) o in preda all'esaltazione assoluta del giubilo (come nei due travolgenti "Hosanna in excelsis" del Sanctus).
Impressionante, sia sul piano espressivo che su quello formale, risulta anche il brano finale della Messa, l'Agnus Dei. Per la prima e ultima volta, nel corso della composizione, le voci del coro sono lasciate a se stesse, senza accompagnamento strumentale (a cappella). Ecco, allora, che nella definitiva resa al Mistero fattasi richiesta di misericordia e di pace ("Agnus Dei… miserere nobis… dona nobis pacem"), il pathos delle voci umane nella loro nudità si fa finalmente, completamente evidente. I fiati introducono solennemente la preghiera, e si alternano alle voci con movenze e scelte sonore (tanti intervalli di quarta e quinta, dalle sonorità trecentesche) degne di una messa di Guillaume De Machaut. Le voci (prima femminili, poi maschili, poi unite) e il gruppo compatto degli strumenti si alternano in modo tranquillo e assolutamente privo di enfasi: un intimo dialogo tra umanità e materia, una commovente supplica alla quale il Creatore non potrà certo - allora, come ora - non prestare orecchio.