Gustavo Bontadini, La metafisica dell'esperienza

Ci introduciamo alla figura di Gustavo Bontadini, importante esponente del pensiero cattolico del Novecento, attraverso alcune note generali sul suo testo più rappresentativo e un confronto con alcune riflessioni di Kant
Autore:
Martucci, Massimo
Fonte:
CulturaCattolica.it



"La Critica della ragion pura si apre proprio con le parole: non essere dubbio che tutte le nostre conoscenze comincino (benché non tutte derivino) dall'esperienza. Affermare che l'esperienza è il cominciamento o il punto di partenza del sapere è appunto rilevarne la posizione metodologica: e, con ciò, abbiamo constatato che questo tema sta sulla soglia della più grande opera della filosofia moderna."


L'immediato riferimento alla problematica kantiana presente nell'opera più rappresentativa della produzione di Gustavo Bontadini permette di cogliere il senso metodologico che traspare dal titolo stesso di essa: Saggio di una metafisica dell'esperienza. Non: "Saggio di una metafisica", dunque, ma "di una metafisica dell'esperienza". Il principio di metodo che segna la via di accesso alla filosofia per Bontadini non è quindi quello di affidarsi innanzitutto ad affermazioni sull'essere, né sulla conoscenza nel senso di una teoria della conoscenza, ma appunto quello di risalire a ciò che, secondo la sua espressione, "immediatamente consta": l'esperienza, l'esperienza come "presentazione dell'essere". Ci sembra subito doveroso osservare che, sebbene sotto lo stesso termine, Kant e Bontadini si riferiscano qui effettivamente allo stesso concetto, ma secondo due prospettive decisamente diverse: se per il primo l'esperienza da cui il sapere comincia sarà poi considerata dalla filosofia secondo la sua generalità, secondo il concetto di "esperienza possibile", per il nostro autore l'esperienza da cui l'indagine filosofica deve prendere le mosse, in quanto ogni nostra conoscenza, anche non filosofica, da lì trae origine, è l'esperienza effettiva, quella circostanza reale di rapporto col mondo (e a questo stadio non è ancora fissato che si tratti di un rapporto solamente conoscitivo) in cui il filosofo, all'inizio del suo lavoro, si trova.
Detto questo, è evidente che il richiamo a Kant assume un rilievo, in questa prima fase, essenzialmente metodologico, che ben si accorda con due aspetti del pensiero di Bontadini: innanzitutto - con un riferimento più specifico a quest'opera - perché il suo discorso filosofico non può rinunciare ad un carattere di propedeuticità: stiamo interrogando l'inizio dell'indagine filosofica, e dunque a questo stadio risulta essenziale un orientamento metodico saldo e indubitabile: in questa prospettiva il paragone con Kant, da egli stesso portato, è certamente corretto nella misura in cui individua il prius del discorso filosofico nell'esperienza. In secondo luogo, Kant rappresenta, insieme a un po' tutta la "modernità", un termine di paragone irrinunciabile per l'intero percorso di pensiero bontadiniano, offrendo ad esso un rigore e un metodo che gli consentono di porsi con originalità di fronte alle correnti filosofiche con cui, per circostanze storiche e culturali, Bontadini è a più stretto contatto, fra tutte il neotomismo. Così la domanda filosofica per eccellenza rimane la domanda metafisica sulla vita, ma le acquisizioni imprescindibili della modernità gli consentono di indagare con rigore la struttura del domandare, ossia la coscienza. Questo implica una sorta di epochè sugli asserti metafisici, in vista di una rigorizzazione del pensiero metafisico in senso trascendentale: ciò che occorre recuperare è la solidità del punto di partenza, prima di poter far questione di qualsiasi contenuto filosofico.
A questo punto però non può non richiamare la nostra attenzione l'analogia con il percorso cartesiano: ciò che rimane di indubitabile dopo il "dubbio" esercitato su tutti i contenuti del conoscere è la sorgente stessa del conoscere: il cogito. Ma è proprio su questo punto che Bontadini muove una critica a Cartesio per così dire "dall'interno", pur mettendosi alla sua scuola, come abbiamo detto, per quanto riguarda l'aspetto formale della sua ricerca:


"In Cartesio il cogito è una verità di fatto, prima pietra bensì dell'edificio del sapere, ma non principio generatore del medesimo - tale principio doveva restare, per tutto il razionalismo, Dio -; in Kant al contrario il cogito è visto nella sua apriorità, ossia come forma della conoscenza."


Non quindi, semplicemente, l'esperienza come presentazione dell'essere al posto del cogito, come scelta fra due possibilità da porsi sullo stesso piano, ma una considerazione più radicale:


"Il primo certo non è il "cogito ergo sum" di Cartesio, se si intende come pensiero al di qua della realtà, e che debba entificarsi (sum) per se stesso, come puro pensiero. Anzi, la realtà dell'essere è in certo senso conosciuta prima del conoscere stesso".


La conoscenza del conoscere è insomma un movimento riflessivo secondo. Ciò che realmente ed originariamente è dato nell'esperienza non è il conoscere isolato e "in quanto tale", ma una unità. Il carattere primitivo dell'esperienza effettiva è innanzitutto l'unità; constatazione che porterà Bontadini a coniare l'espressione guida di buona parte del suo pensiero di Unità d'Esperienza. Ma unità fra che cosa? Il che evidentemente comporta il tentativo di rispondere in profondità alla do-manda: cos'è l'"esperienza"?
Innanzitutto dire dell'unità è dire d'una connessione, di una organicità dei dati esperiti, d'una consapevolezza che raccoglie e perciò media il molteplice dell'esperienza. Potremmo dire, in altri termini, che l'esperienza è per un verso senso, ovvero immediata presenza dell'essere, e per l'altro, in quanto riconoscimento e connessione del senso, è anche pensiero:


"L'U.d.E. (Unità dell'Esperienza) è come tale anche Unità del Senso. E tuttavia l'Unità del Senso non è essa, come tale sentita: ma ciò per la buona ragione che nessuna cosa, in generale, è sentita come questo o come quello, perché il rilevare il come è proprio [...] della coscienza pensante. [...] Il pensiero, sopra l'Unità del Senso, pensa l'unità di sé e del senso. Questa nuova unità non è più ampia dell'U.d.E., ma è l'U.d.E. come unità di senso e pensiero. Possiamo anche dire: l'U.d.E. come pensiero, giacché il pensiero, per quanto si è fin qui introdotto, è pensiero del senso e quindi già per sé, unità di sé e del senso."


L'unità è così il carattere distintivo dell'esperienza a tutti i livelli: nel senso, di senso e pensiero, di senso e pensiero nel pensiero. Ma probabilmente non sarebbe corretto lo stesso parlare di livelli, termine che sembrerebbe alludere ad una successione, temporale o gerarchica, e dunque in qualche modo ad una estrinsecità dei vari termini presi in esame. Invece il senso del discorso bontadiniano sembra proprio essere che senso e pensiero, che a loro volta sono da concepirsi come unità, accadono insieme nell'esperienza effettiva. Questa unità, anche se il termine non è esplicitamente adottato da Bontadini, ha dunque tutti i caratteri di un assoluto a priori, e precisamente di una sintesi ("unità") a priori, e comunque di quanto più lontano si possa concepire rispetto ad una unione a posteriori di due entità preesistenti quasi ipostatizzate, senso e pensiero (il che, come abbiamo visto, è precisamente il contenuto della critica volta a Cartesio). Ma perché il richiamo a Kant non sia peregrino occorrerà richiamare le righe finali della Introduzione alla Critica della Ragion Pura, in cui egli afferma:


"[...] si danno due tronchi dell'umana conoscenza, che rampollano probabilmente da una radice comune ma a noi sconosciuta: cioè senso e intelletto; col primo dei quali ci sono dati gli oggetti, col secondo essi sono pensati."


Ancora una volta sottolineiamo, nel riferimento a Kant, non un'analogia con lo sviluppo della dottrina del trascendentale (ad esempio, Bontadini qui non parla esplicitamente, ancora, di forma e materia della conoscenza, o della questione se gli oggetti si debbano regolare sulla nostra conoscenza o viceversa), ma innanzitutto una analogia di metodo: anche Kant muove dall'evidenza che l'esperienza non sarebbe possibile senza qualcosa di dato e senza una capacità di pensare ciò che è dato. Non solo: dall'evidenza che questi due termini accadono insieme, e l'esperienza è possibile solo grazie alla loro unità. Dal che sembra ragionevole affermare che essi sorgano da una radice comune, che però egli non si propone di indagare, perché sta scrivendo un'opera di metodo, e non di metafisica. Così è per Bontadini: l'esperienza è di fatto questa unità, prima di avventurarsi in affermazioni ontologiche sulla natura dell'oggetto e del soggetto, prima di discutere del realismo o dell'idealismo.
Anzi, proprio quest'ultimo accenno ci consente di prendere in esame l'altra caratterizzazione di questa "unità" dell'esperienza: l'altra evidenza è che nell'esperienza essere e apparire si identificano:


"Se nell'U.d.E. né l'essere può ridursi all'apparire, né viceversa, poiché l'identificazione loro è paritetica, talmente che nessuno dei due termini preso per sé solo può mettersi in luogo della loro identità, né d'altra parte l'essere può disgiungersi dall'apparire, extraporsi all'apparire, porsi come immanifesto, l'U.d.E. - che è il necessario punto di partenza di ogni filosofia - non è, per sé, né posizione di idealismo, né posizione di realismo: o, se si vuole, è l'una cosa e l'altra, ed è appunto perciò né solo l'una né solo l'altra: essa è, piuttosto, ideal-realismo".


Così, per Bontadini, il problema che, sin dalle sue origini, affligge la filosofia moderna, se cioè l'essere sia altro dal pensiero, e sussista anche indipendentemente dal suo esser pensato, è in realtà un falso problema: l'ordine della presenza si dà in se stesso solo come presenza dell'essere, e con tale presenza ha a che fare l'esperienza. E qualunque diversa qualificazione dell'essere dovrebbe pur sempre darsi ancora nell'ordine della presenza.
Se dunque il metodo dell'indagine sembra portare al recupero di quell'intentio recta abbandonata dalla tradizione moderna (occorre puntare innanzitutto a ciò che è dato, e ciò che è dato è l'esperienza, prima che il come l'esperienza sia data), l'affermazione, linguisticamente considerata, di una pariteticità fra pensiero ed essere non ha mancato di attirare su Bontadini la critica di esser ricaduto nel pregiudizio immanentistico, se non in una aperta adesione all'idealismo. Accusa dalla quale egli non mancò di difendersi:


"Col fare l'essere immanente al conoscere, non si perde nulla della ontologicità dell'essere. […] Giacché la prelodata "identità intenzionale" esiste proprio tra il conoscere da una parte e l'essere in quanto vero essere dall'altra, e non già semplicemente tra il conoscere ed una parvenza di essere. Nulla è dunque qui da temere di una qualsiasi "volatilizzazione gnoseologica" dell'essere. Che l'essere sia pensiero non toglie punto che l'essere continui ad essere essere, in tutte le sue proprie determinazioni, le quali non sono punto alterate dall'elemento "pensiero", ma soltanto "rivelate". Perché questo, infine, significa l'immanenza dell'essere al pensare: l'immanenza del rivelato alla rivelazione sua."


E' questo, a nostro parere, un frutto interessante della citata epochè degli asserti metafisici: la propria posizione ontologica (che pure traspare evidentissima nelle affermazioni dell'autore) non deve inficiare il rigore metodologico del procedere filosofico. Così il dato primario è proprio l'identità intenzionale di pensiero ed essere, che non sono dunque da concepirsi come estranei. Questo non significa di per sé che essi non siano altri l'uno dall'altro. Semplicemente, il pronunciarsi su questo appartiene ad un momento successivo. In questo momento, l'obbedienza all'esperienza comporta il fatto che vanno tenute insieme queste due osservazioni: da un lato nulla si afferma come reale se non alla coscienza (ciò che potrebbe portare all'idealismo); dall'altro che il pensiero non è null'altro che presentazione dell'essere (affermazione di per sé consona al realismo).
Per comprendere il rigore che, anche a rischio di fraintendimento, è proprio di Bontadini in questa fase del suo percorso, ci riferiamo, soltanto a titolo di esempio, ad una critica che gli mosse Cesare Luporini: egli affermò che, in una prospettiva del genere, il passaggio alla trascendenza metafisica resta impossibile, una volta che l'orizzonte dell'esperienza sia stato indicato come primario ed insuperabile. L'accusa sarebbe dunque non solo di non prendere posizione a favore della trascendenza ontologica perché in questa fase il metodo che si è imposto non lo prevede; al contrario, il rifiuto di porre un problema che non sia rintracciabile e indagabile a partire dall'esperienza negherebbe di principio la possibilità della trascendenza.
La risposta di Bontadini a tale accusa è precisa: il problema della trascendenza può essere e deve essere posto all'interno dell'esperienza, e precisamente deve essere posto dal pensiero in quanto riflessione sull'essere che è effettivamente dato a presenza (attraverso il senso). Questa considerazione, a partire proprio dall'esigenza della trascendenza così posta, aprirà poi la strada alla posizione dell'idea di assoluto, in cui verrà individuato il principio portante dell'unità dell'esperienza.
Volendo concludere richiamandoci nuovamente a Kant, proprio in questo consiste la critica che Bontadini muove alla sua idea di esperienza, pur apprezzandogli il rilievo conferitogli da un punto di vista del metodo:


"Sennonché proprio l'esperienza […] è intesa, si sa, come recettività, come stimolazione dall'esterno, come azione di un oggetto sulla nostra sensibilità. […] Da questo punto di vista noi critichiamo il kantismo - ossia il criticismo - perché assume un illegittimo punto di partenza e riconosciamo subito la relativa superiorità dell'idealismo posteriore, il quale a tale punto ha rinunciato".


E ancora: per Kant l'Unità dell'Esperienza "non è vista ancora nella sua originarietà gnoseologica, ma solo come una sintesi che si produce per l'investimento, da parte della coscienza, della molteplicità estrinsecamente data"
Così, nonostante l'analoga istanza di unità all'interno dell'esperienza che accomuna i due autori, l'indagine di Bontadini è così centrata sull'originarietà, sulla figura più originaria possibile di questa unità, da indurlo a preferire l'idealismo al criticismo in quanto "relativamente" superiore, cioè meno problematico (nel senso di una coerenza interna, naturalmente!) nell'affermazione e nella giustificazione dell'unità dell'esperienza.
Ma ancora un'ultima volta ci pare doveroso sottolineare come la via di Bontadini abbia innanzitutto il carattere del rigore, rigore che tanto è debitore al metodo cartesiano e soprattutto al criticismo kantiano; come egli segua la strada dei maestri della filosofia moderna, e attraverso di loro tenti di disvelare la via attraverso cui la filosofia possa farsi propedeutica a se stessa, sia pur col sacrificio iniziale di rinunciare all'argomentazione e ai contenuti tradizionali. Come con questo guadagno affronti l'intera tradizione filosofica (sarà un'ampia sezione del Saggio) ricercando traccia, nei filosofi del passato, della consapevolezza che dalla vita e dall'esperienza concreta della vita scocca la scintilla che accende la ricerca filosofica. Su questo terreno egli segue e supera Aristotele: questi infatti, all'inizio della Metafisica, affermava che "gli uomini principiarono a filosofare dalla meraviglia", dal domandarsi con stupore il perché delle cose incontrate nella vita effettiva; ma il seguito immediato del discorso è che il compito del filosofo è quello di superare questa condizione, che nasce dall'"ignoranza delle cause", per instaurare un sapere della realtà che chiuda e risolva in se stesso quest'apertura originaria di stupore. Bontadini invece, non inventando nulla, ma partendo dalla esperienza semplicemente data, individua la via per aumentare certamente il proprio sapere sulla realtà (la filosofia è soprattutto ricerca), e tuttavia in un senso non teoreticistico: l'esperienza rimane, a qualsiasi livello di speculazione ci si elevi, la terraferma che consente un uso pieno e compiuto della ragione, un domandare e uno stupirsi sempre più ricchi e più desiderosi di profondità.
E' con questa fondamentale acquisizione che egli si introduce in alcuni nodi teoretici del suo proprio pensiero con una originalità, un'accortezza e una metodicità che spiccano certamente nel suo ambito culturale e filosofico più prossimo, ma senza dubbio anche all'interno del panorama italiano ed europeo dei suoi anni.