Alain Finkielkraut: alla radice dell'ideologia
Scorci di attualità da una lezione del professore francese- Autore:
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"Credo di aver capito il meccanismo fondamentale dell'ideologia". Durante una sua conferenza milanese, è Alain Finkielkraut, un grande pensatore francese, che insegna Filosofia all'École Polytechnique di Parigi, ad "osare" questa affermazione suggestiva; il compito che si propone è arduo, ma a suo dire urgente e appassionante: cercare di cogliere, attraverso il confronto fra utopia e realtà, l'origine da cui scaturisce l'ideologia. L'ideologia non è morta con la fine della Guerra Fredda, né con la caduta dei grandi regimi totalitari: al contrario, sopravvive, più o meno sottilmente, perché ancora molto viva è la sua scaturigine teorica. Il professore francese mette in campo alcuni fattori latu sensu filosofici che, a suo modo di vedere, stanno alla radice della tendenza a fare della politica una politica ideologica. Innanzitutto si richiama a Rousseau, e alla sua dottrina secondo cui il male ha un'origine essenzialmente storico-sociale: "Odio la servitù come fonte della disgrazia umana" affermava il filosofo francese. Esiste un crimine originale che sta all'inizio di tutti i mali, anzi che determina tutti i mali e tutti i crimini particolari. Qui entra in gioco il secondo punto filosofico, che è il principio di ragion sufficiente di Leibniz. Secondo la nota teoria leibniziana, se un evento accade, vuol dire che esistono ragioni adeguate ed esaurienti perché esso accada. Non siamo di fronte ad una tautologia, ma ad un vero e proprio determinismo: tutti gli eventi dell'universo, e dunque anche le azioni umane, sono riconducibili ad una serie di cause necessarie che le hanno determinate. L'esempio di Finkielkraut è il più evidente, ma nello stesso tempo colpisce la lucidità con cui egli legge l'attualità avendo la capacità di descriverla prima di interpretarla, di descriverla nelle sue dinamiche. Si tratta degli USA dopo l'Undici Settembre, un evento che immediatamente ha suscitato sconcerto e stupore in tutto il mondo. Ma presto lo stupore è cessato, e la gente ha iniziato a parlare di quello che era accaduto all'America in termini diversi. Gli stati Uniti - si è iniziato a dire - erano colpevoli della propria stessa potenza. Come dire: la ragione delle cose, che da ogni premessa trae la necessaria conseguenza, ha fatto sì che questa superpotenza, colpevole originariamente di essere appunto tale, abbia avuto la giusta pena per la propria colpa. E chi le ha inflitto questa pena, ha in un certo senso applicato il principio di Ragione, sì è fatto interprete di ciò che "era scritto" nella storia. Ecco l'ideologia all'opera: a partire da un principio teorico, le vittime diventano i colpevoli, e i responsabili diventano vittime. Questo principio deterministico, insieme a quello rousseauiano del crimine originario, determina un modo di rapportarsi a ciò che succede nel mondo, appunto ideologico. Infatti l'umanità viene divisa in due grandi categorie, che tuttavia non trovano alcuna ragion d'essere nella realtà: chi agisce e chi re-agisce. I destini di queste due categorie di uomini sono molto diversi. Chi agisce, infatti, agisce di sua volontà, ed è dunque responsabile di quello che fa. Si potrebbe dire, sempre con Finkielkraut, che agisce secondo un principio di ragione insufficiente: agisce cioè senza essere determinato, in quello che fa, da una catena di cause che da sole sono in grado di spiegare ed esaurire la sua azione. La sua azione risulta dunque ultimamente irriducibile a qualsiasi spiegazione deterministica; è un'azione libera e, in quanto tale, suscettibile di responsabilità morale. Molto diversa è la sorte di chi reagisce: questi, infatti, agisce secondo il principio di ragion sufficiente (o principio di Ragione), per cui, qualunque cosa faccia, sarà sempre innocente, in quanto la vera causa delle sue azioni non risiede in lui, ma fuori di lui, in quelle che genericamente possiamo chiamare "circostanze". Di questa categoria si serve la sociologia moderna, che cerca di spiegare i comportamenti umani partendo dalle circostanze che li determinano ad agire. E qui Finkielkraut non risparmia una nota polemica, e ricorda come spesso, nella sua patria come altrove, si sia dato il caso seguente: di parlare, di fronte alla violenza in termini sociologici, indagando a fondo le cause esterne che possono portare un uomo a compiere atti scellerati; e di professare invece con sdegno una "indignazione morale" di fronte ad un fascista o ad un razzista. Al di là della correttezza o meno dei rispettivi giudizi, pare evidente al nostro intellettuale un meccanismo all'opera che si sovrappone alla realtà, colorandola ora in un modo ora in un altro a seconda dell'arbitrio di chi tira le redini dell'opinione pubblica. Attorno a questo percorso teorico, Finkielkraut pone numerosi esempi di attualità, spaziando dalla situazione francese all'orizzonte internazionale. Su questa divisione ideologica fra chi agisce e chi reagisce, fra chi è colpevole e chi giustamente si ribella, fa il caso dell'antisemitismo in Francia: la Francia è per definizione una nazione antisemita; ebbene, proprio in questi tempi si assiste ad una nuova ondata di antisemitismo, che tuttavia non è considerata come attribuibile al dominio dei "colpevoli". Gli antisemiti fanno parte di coloro che reagiscono; loro, esclusi ed emarginati, vittime delle loro stesse condizioni, e soprattutto vittime di quel crimine originale che li rende assolutamente non responsabili dei loro crimini particolari. Su questo allontanamento della giustizia dalla realtà, su questa ipostatizzazione del crimine al di fuori della storia concreta, Finkielkraut si pronuncia duramente circa il Tribunale Penale Internazionale. A suo dire, tale istituzione, avendo il compito di giudicare crimini senza prescrizione, si sottrarrebbe al dominio del tempo, spostando l'amministrazione della giustizia ad un livello quasi divino. Ad un diritto universale, sembra dire, preferisce invece una politica reale per l'umanità. E cita il caso della Croazia, un paese che negli ultimi anni stava avendo un'apertura democratica, fino a quando il Tribunale Penale, chiedendo l'estradizione di un nazista di 83 anni, ha fatto sì che si ridestasse il sentimento nazionalista. Finkielkraut, figlio di una famiglia ebraica segnata dal dramma di Auschwitz, parla anche del conflitto fra Israele e Palestina; non compie un'analisi della situazione, né prende esplicitamente posizione per l'una o per l'altra parte. Mostra solo, ancora una volta, il meccanismo dell'ideologia all'opera. In questo caso, ad esempio, la Memoria, la tanto invocata Memoria, si ritorce contro Israele. Cita un giudizio di una giornalista italiana che accusava Israele di essere di essere stato l'unico paese a non aver fatto il mea culpa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Da qui, secondo la ferrea logica dell'ideologia, deriverebbe la violenza estrema degli Israeliti. Il professore francese parla anche della possibile guerra contro l'Iraq, e della perplessità di fronte ad essa, di fronte alla debolezza di certi argomenti pacifisti, di fronte alla stranezza della situazione mediorientale. L'Arabia Saudita, ad esempio. E' l'unico paese al mondo nel cui nome compare il nome della famiglia governante; eppure, secondo gli Stati Uniti, si tratta di un paese assolutamente moderato. E non è l'unico punto di incertezza intorno all'America: questa, da sola, vorrebbe ricostruire il Medio Oriente, per di più con i suoi mezzi, investendo una possibile guerra di ragioni morali che invece non devono essere tali. Se delle ragioni ci sono, infatti, queste non sono morali. C'è di mezzo un popolo, ad esempio; e le manifestazioni a favore del popolo iracheno, e dunque contro la guerra, secondo Finkielkraut non tengono conto del fatto che proprio non fare la guerra significherebbe abbandonare a se stesso questo popolo. Ed è proprio su questo tema che il professore fa la sua dichiarazione di pessimismo. Per quanto riguarda la guerra, esso si traduce in un "no alla guerra, ma con la morte nel cuore". Ma più in generale, uno sguardo pessimistico nei confronti della realtà storica sembrerebbe essere l'unica possibilità nei confronti dell'avanzare dell'ideologia. Eppure, poco prima Finkielkraut aveva risposto in modo diverso ad una domanda che chiedeva se una speranza è ancora possibile, e qual è il luogo della speranza. Aveva ripreso la categoria dell'avvenimento, che è per eccellenza il luogo in cui la realtà sfugge al controllo dell'uomo. Viviamo in un mondo - diceva - dove l'uomo ha il desiderio di dominare la realtà, in un certo senso di produrla lui stesso, per poterla meglio controllare. Con un implicito accenno alla visione hegeliana della realtà, reale e razionale vengono così a coincidere. Tutto ciò che avviene, e in quanto tale è dato, viene sempre più messo ai margini, per far spazio a ciò che invece è prodotto. La tecnologia, anche nella sua versione biologica, è permeata da questo spirito. Al contrario è proprio nell'avvenimento che va riposta la nostra speranza, in quello che ci è dato; in quello che, indipendentemente da noi, è dato a noi. Hannah Arendt usava come paradigma della gratuità nel darsi della realtà la figura della nascita. La nascita è il paradigma ontologico dell'evento: "Un bambino è nato per noi"! Una nascita è un miracolo, e il miracolo è ciò che può vincere sull'utopia. E' sempre Finkielkraut che parla, ma la passione di queste parole sembra trapassare il suo "metodo" pessimistico, tante volte professato. Di fatto, il suo lavoro non è solo un lavoro di critica, di critica dell'ideologia e dell'utopia. Altrimenti sarebbe fine a se stesso. Invece, attraverso questa critica, si percepisce che il suo desiderio è quello di costruire qualcosa, una cultura nuova, che arrivi a quel punto della ragione in cui, se è vero che la realtà ci viene in contro con gratuità, l'ultima parola di fronte alla vicenda umana può essere solo… gratitudine.