"Un altare per la madre " 4 - L'altare di pietra e l'altare di parole
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A questo punto la figura del padre si erge in tutta la sua potenza e la narrazione si fa più incalzante. Il tempo manca. Due settimane sono troppo poche, ma egli non lascia nulla di intentato. Senza più pensare a mangiare o a dormire, in preda alla febbre per una infezione che risale ancora al tempo di guerra, simile a un novello Vulcano, in tutto un alternarsi di esaltazioni e scoramenti, egli trasforma il suo laboratorio in una fucina dove il legno e il rame dei paioli in cui i paesani fanno la polenta, si trasformano in un altare scolpito e cesellato. Sceglie a questo scopo alcuni aspetti della natura che ricordino meglio la madre: spighe di grano, acini della sua uva preferita…
L’immedesimazione completa nella missione di cui si sente investito gli dona l’umiltà stupita dell’artista di fronte al miracolo dell’opera che esce dalle sue mani:
“Grazie, disse (…) Ebbe una strana sensazione, un tremito: come se non lui costruisse qualcosa, ma qualcosa costruisse lui, e alzandosi in piedi si sentiva umile come un regalo senza valore.” (p. 93)
Tutto il paese collabora fornendo le ‘ramine’ perché contribuiscano a ornare l’altare e il padre non ne rifiuta nessuna purchè sia stata donata volentieri. Anche quella dei più poveri ne fornirà un piccolo pezzo e poi sarà restituita alla famiglia proprietaria che non ne ha altre, ma è stata pronta a donarla.
“Chi ha dato la ramina ha diritto di venire a vedere l’uso che ne fa. Sicché lui lavora dritto in piedi come un gigante, fatto più grande perché non può piegare il ginocchio [gonfio e tumefatto per l’infezione n.d.r.], e intorno c’è sempre gente accovacciata che lo ammira (…) guardandolo si vede che se cadrà non si affloscierà su se stesso, come un sacco mezzo vuoto, ma verrà giù di schianto come un albero tagliato. (…) A ogni ora che passa alza gli occhi e dice: ’Ti ringrazio’, e in quell’atto s’inchina leggermente: tutto il corpo gli obbedisce come se fosse fatto solo per chinarsi. Tutto ciò che fa è un regalo che riceve.” (pp.101-103)
La processione infine passa e l’altare non è pronto.
Il padre però non smette di lavorare e finisce due ore dopo, quando ormai, dopo la processione, la gente sta tornando a casa alla spicciolata Quando tutto sembra perduto, passa il prete, si ferma, trova il padre avvilito in un angolo, guarda le figure scolpite nel rame e infine dà la sospirata benedizione all’altare eretto nella memoria della madre.
Ma il destino dell’altare fu poi ancora più glorioso, perché venne trasferito nella chiesa del paese, un convento del Duecento che dopo la riforma liturgica necessitava di un altare da cui il prete potesse dir Messa rivolto ai fedeli. E come Pietra Sacra ebbe le reliquie di un
“uomo nato a Venezia…Il suo corpo è sepolto nell’oratorio di San Bartolomeo a Somasca nella provincia di Bergamo” (p. 120)
Camon non ne fa il nome, ma ci dà gli elementi per riconoscere in questo santo Gerolamo Emiliani, fondatore della ‘Compagnia dei Poveri’, beatificato da Benedetto XIV, canonizzato da Clemente XIII.
“Al momento in cui fu inserita la Pietra Sacra, immaginavo mia madre che si metteva da parte, per far posto al suo nuovo Amico.” (p. 121)
Ecco dunque un ultimo tassello del mosaico: l’umiltà della figura evangelica della madre che ‘condivide’ il ‘suo’ altare con un Santo della Carità.
A conclusione del racconto si svela il vero significato del romanzo di Camon: diventare a sua volta un altare, non di legno né di rame, ma di parole che creino un ponte fra i due mondi di cui l’autore si sente parte: quello contadino da cui è uscito, quello della città in cui è emigrato.
“E finito che ho di testimoniare questa sua [della madre n.d.r.] trasformazione in altare, che fu possibile solo per l’amore, la cultura e la pietà propri del suo mondo, dal quale sono uscito, sento che, scrivendo questo libro, ho fatto esattamente la stessa cosa, costruendole questo altare di parole, secondo l’amore, la cultura e la pietà che sono propri del mondo, nel quale sono emigrato.” (p. 121)