Il realismo e Cartesio

Autore:
Martucci, Massimo
Fonte:
CulturaCattolica.it



Innanzitutto occorre osservare che possiamo porci il problema del realismo come questione filosofica perché siamo figli di una cultura che, nel corso dei secoli, ha individuato nell'atteggiamento realista una posizione filosofica da cui distanziarsi. Certamente Aristotele era realista, e proponeva una dottrina della conoscenza che nulla ha a che spartire con quello che in filosofia succede dopo la rivoluzione cartesiana. Eppure probabilmente Aristotele non sapeva di essere realista, non conosceva una alternativa seria ad una conoscenza della cosa che si proponesse di cogliere un'oggettività univoca nella cosa conosciuta. Ma neanche Platone, che pure tanti idealisti hanno usato a modello del proprio sistema, non si discostava molto da questa immagine di conoscenza, per quanto il vero oggetto del conoscere non fosse per lui quello immediatamente esperibile nella realtà empirica.
Questo per dire che il realismo diventa una posizione filosofica nel momento in cui in filosofia si sviluppa un modello alternativo ad esso: questo momento può essere simbolicamente identificato con l'operazione cartesiana. Cartesio è il primo grande filosofo che mette in discussione l'immagine aristotelica della conoscenza. Per il grande maestro greco la conoscenza avviene perché la potenzialità che la conoscenza ha, e che consiste in un poter conoscere, passa dalla potenza all'atto in quanto "risvegliata" dall'oggetto: l'oggetto, che in sé e per sé rimane oggetto, nella conoscenza si fa una cosa sola con il soggetto, ma in quanto lo rende attuale, cioè in atto. Di qui discende una conseguenza che è fondamentale per il realismo: il "modo" della conoscenza è imposto dall'oggetto. E' l'oggetto il vero protagonista dell'atto conoscitivo, la potenzialità del soggetto, da sola, non si può dare la cosa conosciuta. Ma la cosa conosciuta diventa conoscibile perché anch'essa passa da una potenza all'atto, e qui vale sempre il grande principio aristotelico, per cui ogni cosa passa dalla potenza all'atto solo in virtù di qualcosa che è già in atto. Così la conoscenza delle cose è possibile perché le cose la fanno passare in atto, ma le cose sono conoscibili in virtù di un principio superiore, che Aristotele chiama "intelletto agente", che è ciò che rende appunto intelligibili gli oggetti. Nella tradizione cristiana questo intelletto sarà identificato con Dio stesso.
Bene, tutto questo sistema viene fatto vacillare da Cartesio. Cartesio si pone il problema, filosoficamente rilevante, di confutare lo scetticismo. Il suo intento non è certamente quello di distruggere la possibilità di conoscere il mondo, anzi, il suo obiettivo sarebbe proprio quello di trovare una conoscenza così salda e così certa da resistere agli attacchi dello scettico, il quale afferma: poiché la realtà è contraddittoria, e il linguaggio è inadatto ad esprimerla, va sospeso il giudizio sulla realtà, e la realtà va dunque considerata come non esistente. Cartesio dunque concede tutto allo scettico, con l'intento di trovare quel nocciolo indubitabile da cui ripartire per costruire una nuova conoscenza più certa. I passi sono celebri, e oltre tutto costituiscono il presupposto per Kant, e il principale movente filosofico della fenomenologia di Husserl. Se dunque io dubito di tutto, appunto dubito. Ma per dubitare devo necessariamente pensare. Ma se penso sono. Il cogito ergo sum vuole innanzitutto significare: il mio pensiero, almeno il mio pensiero che dubita, esiste. In sostanza dubitare veramente di tutto è una contraddizione in termini. Cartesio attribuisce a questo cogito il carattere di sostanza, tuttavia non una sostanza nel senso di cosa materiale, ma di una cosa senza dimensioni, che potrebbe esistere - per quanto ne sappiamo fino a questo punto - anche senza il corpo, senza le cose, senza gli altri individui.
Qui si apre un altro grande tema della filosofia moderna: l'esistenza del mondo esterno. Finora, seguendo Cartesio, non abbiamo nessun elemento che possa giustificare il senso comune che ci convince del fatto che "fuori" di noi, cioè fuori dal cogito indubitabile, altrettanto indubitabilmente si estenda un mondo di res extensae, di "cose". E qui il rigore del filosofo francese viene meno, ed egli è costretto ad appellarsi alla bontà di Dio per giustificare l'esistenza del mondo esterno: posto che Dio è buono e dunque non ci vuole ingannare, è impossibile che ci faccia apparire un mondo che in realtà non c'è, perché, appunto, altrimenti ci ingannerebbe contravvenendo alla sua bontà. La maggior parte dei lettori di Cartesio hanno sottolineato lo scarso spessore filosofico di questa argomentazione, e questa critica è certamente condivisibile. Tuttavia, posto che Descartes non era certo un ingenuo e si avvedeva lui stesso di queste difficoltà, a noi sembra particolarmente significativo che, dopo questo tentativo di mettere a nudo la vera struttura del conoscere, ci sia bisogno di Dio proprio per giustificare ciò che nell'atteggiamento naturale cogliamo immediatamente: il mondo esterno. Noi infatti, nella conoscenza reale, non ci rendiamo conto di pensare quando conosciamo una cosa, ma veniamo colpiti prima dalla cosa, e solo poi ci possiamo rendere conto del fatto che la stiamo conoscendo, e dunque, in qualche misura, pensando. La tradizione medievale chiamava questo atteggiamento conoscitivo intentio recta, un intenzionare l'oggetto direttamente, senza la mediazione del pensiero. Quello che l'operazione cartesiana fa è retroflettere la conoscenza su se stessa, tanto da individuare il prius nel pensiero, e solo poi porsi il problema di derivarne l'oggetto conosciuto (alcuni hanno parlato, a questo proposito, di intentio obliqua).
Il distacco dall'antichità si è consumato: non c'è più bisogno di un'intelligenza superiore per conoscere; quell'intelletto umano che mai per Aristotele si sarebbe dato senza l'azione dell'intelletto agente, che in ultima istanza è l'intelletto divino, ora si può fondare su se stesso: il cogito è indubitabile di per sé. Ai fini dell'esistenza e della possibilità del cogito, Dio è un'ipotesi non necessaria. Salvo essere recuperato per garantire l'esistenza di ciò che per il senso comune non rappresenta un problema: le cose, il mondo delle cose. Questo è il Dio del cattolico Cartesio, ma è un dio-garante, non entra a pieno titolo nella spiegazione filosofica, che in realtà si conclude con la conquista del cogito. Non è più un dio che è il fondamento della realtà e della possibilità di conoscere la realtà, quel dio a cui tutto tende e in virtù del quale tutto esiste che l'intelligenza del pur pagano Aristotele aveva ipotizzato! Ed è per questo che la ripresa cristiana di Aristotele da parte ad esempio di S. Tommaso d'Aquino, e comunque il riflettere nella fede su questi temi rappresentano una sfida filosofica interessante ancora oggi.
Ad ogni modo, Cartesio prepara la strada a Kant, e all'idea che possa esistere una ragion pura, secondo il celebre titolo dell'opera kantiana, cioè una ragione in grado di spiegare la conoscenza del mondo non dando conto del vero valore del mondo, ma dando conto solo di se stessa, fondandosi semplicemente su se stessa. Il cogito cartesiano diviene un sistema chiuso, e poco a poco lo spazio dato all'oggettualità diminuisce sempre più fino a scomparire: lo stesso oggetto in sé diventa un'ipotesi non necessaria, anzi, una supposizione che complica inutilmente la spiegazione della conoscenza. Di qui all'idealismo il passo è molto breve.
Dunque la gravità (nel senso di pondus, di entità) del gesto cartesiano non sta nell'aver negato il realismo cancellando l'esistenza del mondo fuori di noi: nessuno, neanche l'idealismo più radicale, ha veramente preteso di affermare questo. Ma l'idea che questo mondo abbia un significato in sé, e dunque sia in sé fondato su un principio ontologico che lo fa essere e lo fa essere in quel modo, indipendentemente da qualunque soggetto che lo conosca, e che la ragione possa semplicemente cogliere questo significato ed adeguarsi ad esso, quest'idea assume sempre più il carattere di superstizione agli occhi del filosofo moderno. Ma la sfida è seria: realmente, venuto meno il tradizionale fondamento metafisico del reale - Dio -, non è facile sostenere che le cose abbiano significanza in sé, traggano da sé il proprio valore: molto più naturale sembra allora affermare che questo significato si costituisca nell'atto stesso della conoscenza, compaia solo in relazione ad un soggetto che conosce l'oggetto.
Ma non sempre i conti tornano così facilmente. In questa stretta correlazione di soggetto e oggetto, a volte l'oggetto "sporge" in fuori rispetto al soggetto, lo supera, lo sovrasta, e non sembra poter essere riducibile a ciò che di lui conosce il soggetto. Per concludere, ci sembra interessante riportare su questa ultima osservazione una frase della prof.ssa Vanni Rovighi, che in un articolo del 1935 sulla Rivista di Neo-Scolastica scrive: "Una prova del realismo si può dedurre dal carattere stesso della nostra conoscenza: la nostra conoscenza lascia sempre un margine di ignoto, non esaurisce la realtà. Ora, se c'è l'ignoto, l'essere non si risolve nell'esser conosciuto. E come si prova che c'è dell'ignoto? Dal progredire della nostra conoscenza. La nostra conoscenza progredisce perché è inadeguata, perché lascia sempre dietro di sé l'ignoto." Il vero realismo, oltre al realismo in senso tecnico, è anche quello di chi ha l'umiltà di considerare la conoscenza non come misura del mondo, ma come un sia pur inadeguato tentativo di affrontare con stupore il rapporto con la misteriosità del reale.