Un po' di storia
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La Chiesa greco-cattolica romena si separò dalla Chiesa ortodossa tornando fedele a Roma nell’anno 1700 (sinodo di Alba Iulia), mantenendo l’originale liturgia bizantina ed i canoni orientali ma riconoscendo con gli antichi padri che ubi Petrus, ibi Ecclesia, ubi Ecclesia, ibi Christus - dove è Pietro, là è la Chiesa, dove è la Chiesa è Cristo. Da allora e per quasi due secoli il suo ruolo nello sviluppo dell’identità romena fu determinante: da Blaj, città della Transilvania nota come la “piccola Roma”, uno dei principali centri del cattolicesimo orientale, si diffusero le prime scuole in cui si insegnò a leggere e scrivere in romeno con l’alfabeto latino (non dunque in cirillico, fino ad allora in uso), mentre la riscoperta delle radici latine della nazione riceveva impulso dagli studi di scrittori, chierici e teologi greco-cattolici della cosiddetta “Scuola Ardeleana”.
All’epoca della “Grande Unione” del 1918, quando sulle macerie dell’impero asburgico la Transilvania divenne finalmente parte dello stato romeno, l’allora vescovo greco-cattolico di Cluj Iuliu Hossu e il vescovo ortodosso Cristea lessero congiuntamente la Dichiarazione d’Unione, sancendo quel comune fervore patriottico e quella prassi pastorale ecumenica tra le due Chiese che nessuno aveva mai messo in discussione prima dell’avvento del comunismo.
La distruzione della Chiesa greco-cattolica romena fu deliberata da Mosca per volontà di Stalin in persona, il quale già nel 1946 aveva provveduto ad annientare la Chiesa greco-cattolica ucraina, ossessionato dall’idea che le “divisioni del Papa” costituissero l’unico vero ostacolo al trionfo del sistema sovietico. Come già in Ucraina, il clero e i fedeli greco-cattolici sarebbero dovuti passare forzosamente all’ortodossia, pena il carcere o la morte. In questo, il nuovo patriarca ortodosso romeno Iustinian Marina, dopo uno scambio di visite con il suo omologo russo Aleksej, si rivelò solerte collaboratore del regime.
Già a partire dall’estate del ’48 si verificarono i primi arbitrari arresti, i primi interrogatori, le prime vessazioni contro la Chiesa cattolica di rito orientale che sarebbero poi sfociati nella sua ufficiale messa al bando con l’“Atto di abrogazione” del 1° dicembre 1948. All’inizio della persecuzione, tale Chiesa poteva contare su 6 vescovi, circa 1800 sacerdoti e 2 milioni di fedeli.
La risposta dei vescovi fu da subito ferma. In una predica ad Oradea nel giugno del ’48, il vescovo Hossu aveva dichiarato: “per nessun motivo diverremo traditori e per nessun motivo abbandoneremo la fede di nostra madre Roma (…). Se ci fosse anche chiesta la vita, ebbene daremo la vita per la fede”.
Furono presto espropriate tutte le chiese, i conventi, gli asili, le scuole, che divennero edifici dello stato o furono concessi in uso alla Chiesa ortodossa. Tra il 27 ed il 28 ottobre del ’48 i vescovi greco-cattolici Valeriu Traina Frentiu, Alexandru Rusu, Ioan Balan, Iuliu Hossu, Ioan Suciu e Vasile Aftenie vennero imprigionati e fu loro richiesto il passaggio coatto all’ortodossia. Nessuno di essi accettò.
A monsignor Aftenie (1899-1950), uomo di dialogo e di schietta bonomia, perciò a torto considerato arrendevole dal regime, fu proposto persino, in cambio della sua “conversione”, di divenire patriarca ortodosso di Bucarest. Rispose: “Né la mia fede né la mia nazione sono in vendita”. Le torture cui fu sottoposto direttamente nelle stanze del Ministero degli interni lo condussero ad una morte atroce: quando il suo corpo fu rinvenuto risultava senza braccia.
Aftenie divenne così il primo martire della Chiesa romena.