Monsignor Iuliu Hossu
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Quella di monsignor Iuliu Hossu è un’altra limpida immagine che merita di essere sottratta all’oblio. Nato in un villaggio dell’alta Transilvania, nella provincia di Bistrita-Nasaud, il 31 gennaio 1885, Hossu divenne sacerdote e conseguì il dottorato in teologia a Roma, presso il collegio De propaganda Fide. Tornato in patria, allo scoppio della Prima guerra mondiale fu cappellano militare, quindi nel 1918 è tra i protagonisti dell’Assemblea nazionale di Alba Iulia che sancì l’unione della Transilvania con il resto del paese.
Negli anni 1940-44 la regione venne sottoposta all’occupazione ungherese e, di conseguenza, al regime filonazista del maresciallo Horthy. In questo periodo Hossu, già vescovo della diocesi di Cluj-Gherla, divenne punto di riferimento spirituale per i romeni di Transilvania senza alcuna differenza confessionale, levando alta la voce per difendere i civili dai soprusi degli occupanti e adoperandosi personalmente per dare rifugio e scampo a numerosi ebrei.
Con l’occupazione sovietica della Romania, nell’agosto del ’44, cominciarono le vessazioni all’indirizzo della Chiesa cattolica di rito orientale giudicata anticomunista ed antinazionale in quanto “emissaria diretta del Vaticano”. Arrestato con gli altri vescovi greco-cattolici nell’ottobre ’48, Hossu venne rinchiuso nel monastero ortodosso di Caldarusani e di qui, nel maggio del ’50, tradotto al carcere di Sighet dopo che il Patriarcato ortodosso si era dichiarato “impossibilitato a proteggere” lui e gli altri vescovi rimasti insensibili alle pressioni di passaggio all’ortodossia. Spogliato dei paramenti, rinchiuso in una cella senza riscaldamento, legato con ferri ai polsi e ai piedi e sottoposto ad un regime alimentare che puntava esplicitamente allo sterminio per agonia, Hossu rifiutò ancora le opportunità prospettate dai suoi aguzzini di sottrarsi alla croce perché “al prezzo della fede no, non è possibile. Credinta noastra este viata noastra - la nostra fede è la nostra vita”.
Anche costretto in simili condizioni, il suo esempio non cessava di ispirare nuove vocazioni. Ne è testimone tra gli altri padre Simion Mesaros, che ebbe modo di incontrarlo per pochi istanti nella cella in cui era rinchiuso. Interrogato su cosa si potesse fare per la Chiesa, Hossu rispose semplicemente: “Non smettere mai di pregare”.
La sua fiducia e il suo abbandono alla Provvidenza erano totali.
Questo esempio di fedeltà senza compromessi non restò ignoto a Roma.
Nel 1969 Papa Paolo VI intese nominarlo cardinale: al tempo Hossu si trovava nuovamente rinchiuso nel monastero di Caldarusani (liberato per un breve periodo all’epoca del “disgelo” seguito alla morte di Stalin, fu nuovamente imprigionato dopo che i fatti d’Ungheria del ’56 erano stati letti dalla Chiesa delle catacombe come occasione per tornare alla luce: l’organizzazione di una solenne messa in Piazza dell’Università a Cluj il 12 agosto dello stesso anno, alla presenza di 3000 fedeli, costò il carcere a una nuova generazione di sacerdoti ordinati in clandestinità e riportò Hossu al domicilio coatto). Qui raggiunto dall’inviato papale, fu informato che il governo romeno era disposto ad accettare la sua nomina a cardinale a patto ch’egli lasciasse per sempre la Romania.
Ma Hossu rifiutò di abbandonare il suo popolo: “Io resto qui, nel mio paese, a condividere la sorte dei miei fratelli”.
La sua nomina, rimasta dunque in pectore, verrà resa nota pubblicamente solo dopo la morte del presule. Nell’occasione, era il marzo 1973, il Santo Padre amò definire Iuliu Hossu “simbolo e faro di fedeltà, modello di fede”, e questo proprio negli anni in cui il cattolicesimo conosceva in Occidente l’inizio di uno scisma silenzioso, con “il fumo di Satana” penetrato in qualche oscuro modo dalle porte del tempio.
Chiunque voglia rapportarsi oggi con la storia della Chiesa greco-cattolica romena e considerare le non facili relazioni ecumeniche con la Chiesa ortodossa sorella, chiunque s’interroghi sulla sua identità o, come pure è stato fatto, addirittura sulla sua “liceità”, non può prescindere da questa fedeltà adamantina, pagata fino all’effusione del sangue. Forse prima di questa prova si poteva anche ritenere accidentale, a torto, quella Unione con Roma d’inizio XVIII secolo, o interpretarla come un atto relegato nel tempo ormai superato degli opposti proselitismi tra confessioni cristiane; ma dopo che questi testimoni hanno proclamato con la vita la propria appartenenza e il proprio radicamento, il proprio amore alla comunione con Pietro, il cammino ecumenico non può più eludere questo nodo né procedere per reticenze, bensì avanzare sulla strada della verità nella carità radicale che tutti i martiri del XX secolo, nessuno escluso, hanno tracciato.