«Il tempo dei martiri non è finito»
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Sono giorni drammatici: se ascoltiamo la voce di Papa Francesco, ci colpisce l’ammonizione secondo cui “…il tempo dei martiri non è finito: anche oggi possiamo dire, in verità, che la Chiesa ha più martiri che nel tempo dei primi secoli. La Chiesa ha tanti uomini e donne che sono calunniati, che sono perseguitati, che sono ammazzati in odio a Gesù, in odio alla fede: questo è ammazzato perché insegna catechismo, questo viene ammazzato perché porta la croce… Oggi, in tanti Paesi, li calunniano, li perseguono… sono fratelli e sorelle nostri che oggi soffrono, in questo tempo dei martiri”.
Già prima di diventare Papa, aveva descritto con queste parole la persecuzione nei nostri Paesi di antica cristianità: «La persecuzione è un evento ecclesiale della fedeltà; a volte è frontale e diretta; altre volte occorre saperla riconoscere quando è ammantata da quell’apparenza pseudoculturale con cui ama presentarsi in ogni epoca, nascosta dietro la laica “razionalità” di un sedicente “senso comune” delle cosiddette persone normali e civili. Le forme sono molte e differenti, però ciò che sempre scatena la persecuzione è la follia del Vangelo, lo scandalo della Croce di Cristo, il fermento delle Beatitudini. Inoltre, come nel caso di Gesù, di Stefano e di questa grande “nube di testimoni”, i metodi furono e sono gli stessi: la disinformazione, la diffamazione, la calunnia, per convincere, far avanzare e – come ogni opera del Demonio – far sì che la persecuzione cresca, contagi e si giustifichi fino al punto di sembrare ragionevole».
Non siamo ingenui, siamo capaci di riconoscere questi tempi drammatici.
Ma allora, che cosa ci è chiesto? Leggendo il libro di Don Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo, che raccoglie gli incontri e i dialoghi avuti con gli universitari, mi ha colpito questa sua affermazione iniziale, che potrei sintetizzare così: «La presenza cristiana non è né ignavia né presentismo». Vi si dice infatti: «Il momento che stiamo vivendo adesso è molto provocante, perché costringe anche noi a prendere posizione di fronte alla realtà, ci costringe anche a prendere posizione di fronte a noi stessi, ci costringe in fondo a dirci che siamo noi. Vedo però due tentazioni… O si vive la situazione rifugiandosi in una specie di intimismo (noi abbiamo le nostre cose, la nostra comunità, i nostri interessi) e si guarda tutto a partire da questo ripiegamento, finendo in una specie di associazionismo cattolico collaterale; oppure, all’opposto, si ha un’ansia di risposta: “allora, non facciamo, cosa diciamo? Ci siamo, non ci siamo?”… [A questo così risponde don Giussani:] Che altra possibilità c’è oltre l’alternativa tra reagire a quel che avviene o ritirarsi in quel che è comodo, raccogliersi nell’isola beata, dimenticando il più possibile la sua fragilità assoluta? L’unica via d’uscita è quella di riconoscere una realtà che viene prima di noi… a cui apparteniamo e a cui tutto appartiene… Tutto diventa opera: se noi siamo, viviamo all’interno di questa compagnia, tutto quello che facciamo utente a diventare opera; opera, vale a dire una realtà effimera che incarna l’eterno.»
Allora tutta la vita diventa l’occasione perché, dentro la stringenza delle circostanze, si possa affermare quella verità che salva l’uomo, che non è né un discorso né una regola di comportamento, ma quella presenza di cui si può fare esperienza nella comunione cristiana.
E non posso non ricordare lo stesso Marx che, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, riconosceva che il socialismo che lui desiderava instaurare era una realtà presente nelle condivisioni che gli operai di Parigi vivevano tra loro. Dice infatti: «Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno primariamente come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo è diventato scopo. Questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi, se si guarda una riunione di “ouvriers” socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare, ecc, non sono più puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione. A loro basta la società, l’unione, la conversazione che questa società ha a sua volta per scopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase, ma una verità, e la nobiltà dell’uomo si irradia verso di noi da cui volti intuiti dal lavoro».
È una novità in atto che vogliamo vivere e testimoniare. Non ci interessa alcuna egemonia; lasciamo questa tentazione a coloro che si impegnano nel presente solo se hanno la certezza della riuscita. A noi basta vivere con dignità, e con instancabile energia. Quello che abbiamo imparato da san Paolo (e che in maniera straordinaria Giovanni Paolo II ci ha mostrato sempre) è che bisogna testimoniare Cristo «opportune et importune», cioè sempre.
«We will stand up – Noi staremo in piedi»
Il terribile segno del degrado umano e morale
Questa è autentica vigliaccheria!
Forse può iniziare la riscossa. Basta provare!