Oscar Arnulfo Romero nelle parole di una testimone
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

Hai detto che questa è la prima volta che parli di Romero con una giornalista. Perché non lo hai fatto prima?
Da quando sono in Italia mi hanno cercato alcuni giornalisti, ma io non ho voluto parlare con nessuno di loro. Volevo dare la mia testimonianza a persone di fede, non a giornalisti in cerca di scoop, che potrebbero strumentalizzare politicamente le mie parole. Ma adesso sento che è venuto il momento di parlare apertamente, perché ho finalmente conosciuto delle persone di fede, che possono fare tesoro della mia testimonianza su Romero. In lui vedevo veramente Gesù Cristo presente in mezzo a noi.
Ma prima parlaci di te. Perché sei venuta in Italia?
Quando abitavo ancora in Salvador mi dividevo fra lavoro in ufficio e lavoro in ospedale. Pensavo di studiare nell’università di San Salvador e poi di entrare in convento. Ma il Signore mi ha messo su un’altra strada, per servirlo meglio. Alcuni sacerdoti italiani che lavoravano nella mia parrocchia mi hanno proposto di venire in Italia, ed io ho accettato. Desideravo fortemente venire nel paese in cui Dio ha lasciato la sua sede. Nel gennaio del 1981 sono arrivata in Italia, dove mi sono subito sentita accolta. Anche se non sono mancate alcune incomprensioni con i colleghi, in tutti i posti in cui ho lavorato mi sono trovata bene. Non mi sono mai sentita sola, perché Dio mi fa capire che è sempre con me. Romero e gli altri sacerdoti martiri del mio paese mi hanno insegnato a non arrendermi, ad avere coraggio. Credo che il Signore abbia voluto farmi venire in Italia perché io testimoni al mondo delle sofferenze del mio popolo e della santità dei sacerdoti che non hanno avuto paura di dare la vita per il Vangelo.
Parlaci di loro.
I militari prendevano di mira i religiosi che denunciavano i crimini del regime. Nel 1977 uccisero padre Rutilio Grande, teologo e collaboratore di Romero, nel 1989 uccisero sei gesuiti dell’università del Salvador. I cadaveri di questi ultimi furono trovati orrendamente mutilati. Oltre a loro, furono uccisi molti altri religiosi, che però sono meno conosciuti. Vorrei ricordarne due: padre Marcial Serrano, mio parente per parte di madre, e padre Alfonso Navarro Oviedo. Il 28 novembre del 1980 i militari legarono Marcial Serrano ad una grossa pietra e lo gettarono nelle profondità del lago di Ilopango, vicino a San Salvador. Oviedo celebrava tutti i giorni la messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, dove lavoravo come infermiera. In lui e in Romero io sentivo davvero la presenza di Gesù. Nel 1977 entrambi denunciarono l’assassinio di Rutilio Grande (morto il 12 marzo di quell’anno) invitando gli assassini a deporre le armi e a pentirsi. Durante la messa che aveva celebrato nell’ultima domenica della sua vita, Oviedo disse: “Se volete uccidermi uccidetemi perché non ho paura della morte. Dio mi ha mandato a testimoniare la sua parola e può richiamarmi a Sé quando vuole”. Alcuni giorni dopo fu invitato nella casa del governo, dove probabilmente fu pesantemente minacciato. Uscito dalla casa del governo si diresse subito all’ospedale. Alle cinque del pomeriggio celebrò la messa nella cappella dell’ospedale, io ero presente. Fu una messa strana: Oviedo mi sembrava molto preoccupato, il suo viso era sbiancato. Finita la messa rientrò nella sua casa parrocchiale, dove trovò ad attenderlo alcuni militari. Lo uccisero a colpi di mitraglietta e si dileguarono. La domestica di Oviedo e i vicini di casa sentirono gli spari e si precipitarono da lui. Questa domestica, che conoscevamo bene, ci ha raccontato che Oviedo poco prima si spirare aveva detto: “So chi mi ha ucciso, voglio che sappiano che li perdono con tutto il cuore”. Se n’è andato gioioso al cielo l’11 maggio del 1977.
Adesso parlaci di monsignor Romero. Come facevi a conoscerlo?
Romero abitava nella sagrestia della cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, dove io lavoravo come infermiera professionista. Quell’ospedale fu fondato da madre Luz Isabel Cuevas, una suora missionaria originaria del Messico. Io lavoravo fianco a fianco con lei. Proveniva da una famiglia molto ricca, aveva occhi verdi e pelle bianchissima: mi sembrava una delle vergini sagge di cui parla il Vangelo. Noi del personale la consideravamo una santa. Circa mezzo secolo fa, la Cuevas cominciò ad interessarsi dei malati di cancro. A quei tempi, tutti i malati di cancro del paese venivano a farsi curare nell’ospedale principale di San Salvador. Molti di loro di giorno ricevevano le cure in ospedale e di notte dormivano per strada, perché le loro case erano troppo lontane e loro non avevano i soldi per pagarsi l’albergo. Allora la Cuevas ebbe l’idea di costruire un centro di assistenza per malati di cancro in un piccolo terreno incolto che aveva visto poco lontano dal centro della capitale. Chiese subito alla proprietaria di quel terreno (Bertha Rivas de Albiñana) se voleva venderglielo, ma la signora disse di no. Glielo chiese una seconda volta e la signora disse ancora di no. Glielo chiese una terza volta e la signora rispose: “Suora, lei è molto insistente. Io non vendo le mie terre a nessuno. Sa che cosa faccio? Io la mia terra non gliela vendo: gliela regalo”. Il fatto che la signora avesse cambiato idea in maniera così rapida e inspiegabile parve a tutti un miracolo, e così l’ospedale fu dedicato alla Divina Provvidenza.
Come era Romero nella vita di tutti i giorni?
Romero lo vedevo tutti i giorni, spesso mangiava con noi in cucina. Si avvicinava a me e diceva: “Voglio mangiare con questa mia figliola”. Lui, vescovo del Salvador, amava soffermarsi a parlare con i più umili, con i più piccoli in mezzo al gregge. Era espansivo, simpatico, spiritoso, scherzava con noi e con le religiose, mi faceva molto ridere. Una volta, per festeggiare il suo compleanno, fece venire una banda di mariachi e chiese loro di cantare la sua canzone preferita: “Grave en la penca de un maguey \ tu nombre unido al mio” (ho scritto nello stelo di una agave il tuo nome insieme al mio). Era mite, dolce e grande di cuore. Apriva il cuore a tutti quelli che venivano a parlargli dei loro problemi. Lui li ascoltava uno ad uno, li consigliava con grande saggezza e cercava di aiutarli personalmente come poteva. Si metteva al servizio dei poveri. Una volta a settimana andava in un paesino di nome Paisnal, nel distretto di Chalatenango, ad incontrare i suoi poverissimo abitanti. I bambini gli correvano incontro e toccavano la sua tonaca, che infatti era sempre piena di impronte di manine infantili. Noi tutti guardavamo a lui come a Gesù presente. Io scrivevo poesie in cui lo descrivevo come un santo della nostra epoca, gliele leggevo e lui rideva. Era la persona più umile che io abbia mai incontrato, non si vantava mai di sé stesso, si dedicava completamente al Signore. Gli insulti, le calunnie e le minacce che riceveva negli ultimi tempi non lo turbavano perché si abbandonava completamente nelle mani del Signore, che gli dava un grande coraggio. Ha continuato a parlare nel nome di Dio fino all’ultimo giorno. Da lui ho imparato ad affrontare con coraggio le prove della vita e a non avere paura neppure della morte, perché anche Gesù fu ucciso e noi siamo solo di passaggio su questa terra.
Quindi monsignor Romero aveva ricevuto molte minacce prima di essere assassinato?
I militari gli perquisivano spesso l’automobile alla ricerca di armi. Infatti, il regime lo accusava da tempo di essere un fiancheggiatore dei guerriglieri. Non c’è bisogno di dire che si trattava di accuse infondate, e i militari lo sapevano. Continuavano a perquisire la sua automobile perché speravano di trovare un pretesto qualunque che potesse comprovare le false accuse contro di lui, ma non riuscirono a trovarlo. Romero aveva il telefono in comune con la comunità delle religiose dell’ospedale. Quando Romero pronunciò le sue ultime omelie, che erano ancora più dure delle precedenti, le religiose cominciarono a ricevere telefonate piene di minacce contro Romero. Suor Teresita, la sua segretaria, ce lo disse e noi ci preoccupammo molto, ma sapevamo che non potevamo fare nulla per difenderlo. Romero era del tutto inerme.
Adesso veniamo al giorno della sua morte.
Generalmente Romero celebrava messa in cattedrale. Invece le messe a richiesta le celebrava nella cappella dell’ospedale. Per molti giorni la radio e la televisione del Salvador annunciarono che il 24 marzo 1980 alle ore 18 nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza monsignor Romero avrebbe celebrato una messa per la defunta madre del direttore di un importante giornale salvadoregno. Dunque i suoi assassini poterono sapere con largo anticipo dove avrebbero potuto trovare Romero il 24 marzo 1980 alle ore 18, ed ebbero tutto il tempo di preparare l’attentato. La messa richiamò tantissime persone. Il piazzale si era rapidamente riempito di macchine, la cappella era talmente piena che molti erano dovuti rimanere sulla scalinata esterna. Io non potei andare a messa perché ero di turno nell’ospedale. Ricordo tutto molto nitidamente, come se fosse accaduto appena ieri. La suora che era con me andò a prendere un caffè ed io restai sola con i malati. Cominciai a preparare il carrello delle medicine da distribuire nei reparti quando sentii uno sparo. Pensai che lo sparo provenisse dalla città. Ma dopo qualche minuto vidi correre verso di me alcuni malati, che provenivano direttamente dalla cappella. Mi dissero spaventati: “Signorina, hanno sparato a monsignor Romero”. Ho subito pensato di andare a vedere di persona se si poteva fare qualcosa per Romero. Mi domandavo anche se i malati in carrozzella che avevano assistito alla messa erano stati aiutati ad uscire, oppure se erano rimasti lì da soli in balia degli assassini. Io vedevo Gesù in tutti i malati, soprattutto in quelli terminali. Quindi sistemai i malati nei reparti, li aiutai a nascondersi sotto i letti, chiusi con cura tutte le porte dell’ospedale e poi dissi: “Se devono ucciderci, prima uccideranno me, sarò la prima a dare la vita”. Non so da dove mi venisse tutto quel coraggio. Ero consapevole del fatto che gli assassini potevano essere ancora nella cappella, ma non pensavo alla mia vita. Quando uscii dall’ospedale erano passati circa venti minuti dallo sparo. Nel piazzale non c’era più neanche una automobile. Le suore si erano rinchiuse nella loro casa, i malati in carrozzella erano riusciti ad allontanarsi da soli. Entrai nella cappella e vidi che era deserta. Romero era steso per terra, dietro all’altare, sotto il grande crocifisso di legno appeso sulla parete di fondo. Mi piegai su di lui e misi la mano davanti al suo viso, per controllare se respirava ancora. Speravo assurdamente che fosse ancora vivo, ma a livello razionale sapevo che era morto. Infatti non respirava più e il sangue usciva copiosamente dal naso e dalla bocca. Era chiaro che la arteria aorta era stata irrimediabilmente recisa.
Intanto un fotografo, che sembrava sbucato dal nulla, cominciò ad inquadrarmi con la sua macchina fotografica. Probabilmente aveva assistito all’omicidio e poi si era nascosto sotto le panche quando tutti erano fuggiti via. Dopo qualche istante mi raggiunsero suor Francesca e poi alcuni ragazzi della cucina. Poiché sembravano tutti smarriti, decisi di prendere io in mano la situazione. Dissi: “Aiutatemi a portarlo in ospedale, possiamo ancora salvarlo”. Io lo presi sotto le ascelle, altri lo presero per i piedi e lo trasportammo fuori dalla cappella. Nel cortile dell’ospedale era appena arrivato il camion che portava abitualmente i rifornimenti di viveri per l’ospedale, tutti donati da benefattori (quell’ospedale viveva e tuttora vive di offerte libere). Chiesi al camionista di aiutarci a trasportare Romero fino all’ospedale e lui, con molta carità, fece subito posto sul retro del camion. Suor Francesca propose di adagiare Romero su un materasso, ma dissi che non c’era tempo di andare a prenderne uno: “Mettete Romero su di me”. Mi stesi sulla superficie dura e fredda del camion, continuando a tenere Romero per le ascelle. Durante il breve tragitto fra la cappella e l’ingresso dell’ospedale, il mio grembiule bianco si sporcò del suo sangue. Nell’ospedale fu subito esaminato da un medico. Erano circa le sette del pomeriggio ed io ancora non volevo credere che fosse veramente morto. Poco dopo arrivarono i medici forensi per fargli l’autopsia e mi dovetti arrendere all’evidenza. Intanto, la notizia della morte di Romero si era rapidamente sparsa in città. Molte persone venivano nella cappella a raccogliere con batuffoli di cotone o pezzi di stoffa il sangue che Romero aveva versato dietro l’altare. Nel giro di poche ore la pozza della suo sangue era prosciugata. Quando seppero che il grembiule che ancora portavo indosso era stato macchiato dal sangue di Romero, molti mi chiesero se potevano averne dei pezzettini. Parte di quel vestito è stato messo in uno scapolare, che però non so dove sia oggi. Il nostro ospedale è piccolo: comprende in tutto sei padiglioni. Ma per me è l’ospedale più bello del mondo, perché è stato bagnato dal sangue di un martire. Nella tarda mattinata del giorno successivo i medici forensi ci comunicarono i risultati dell’autopsia: un proiettile speciale aveva centrato in pieno il cuore di Romero, uccidendolo sul colpo. Intanto il cortile dell’ospedale si era riempito di giornalisti, fotografi e operatori televisivi muniti di telecamere. Fu quel giorno che cominciai a guardare con diffidenza ai giornalisti.
Perché lo uccisero?
Quello che mi colpisce è che Romero era inerme; sapevano sempre dove trovarlo, avrebbero potuto ucciderlo in ogni istante. Potevano ucciderlo per strada, e invece lo hanno ucciso in chiesa. Il fatto che lo abbiano ucciso proprio mentre celebrava la messa dimostra che in lui non vedevano un oppositore politico ma un uomo di Dio. Lui infatti parlava loro nel nome del Signore: convertitevi e riconciliatevi, perché vi aspetta il giudizio di Dio. Loro non sopportavano queste parole, perché si sentivano in colpa. Volevano mettere a tacere la parola di Dio, perché la parola di Dio ferisce.
Adesso parlaci del tuo incontro con Giovanni Paolo II.
Quando arrivai in Italia, sentivo di dover testimoniare al papa delle sofferenze del mio popolo. Una mattina del marzo del 1981, ero in piazza san Pietro mentre papa Giovanni Paolo II parlava al popolo. Ero venuta insieme alla delegazione della congregazione romana Unitalsi. Noi volontari, che indossavamo la divisa dell’Unitalsi, avevamo accompagnato in piazza alcuni malati in carrozzella. Alla fine dell’udienza, il papa, come al solito, si avvicinò alla gente che si accalcava dietro alle transenne. Ad un certo punto passò proprio davanti a me. Essendo arrivata in Italia appena due mesi prima, non parlavo ancora italiano. Allora gli dissi in spagnolo che venivo dal Salvador e volevo testimoniare di monsignor Romero. Il papa, che capiva bene lo spagnolo, si fermò, si voltò verso di me e mi strinse la mano forte forte, come se non volesse più lasciarla. Ridevamo felici tutti e due, mentre i poliziotti in borghese che scortavano il papa continuavano a squadrarmi. Allora io gli consegnai una lettera, e il papa la prese. I poliziotti, sospettosi, cercarono di togliergliela di mano, ma il papa volle tenersela. La lettera conteneva le firme di persone legate all’ospedale e alla cappella della Divina Provvidenza che volevano testimoniare di avere conosciuto Romero e gli altri martiri. Nella busta, accanto alla lettera, c’era anche un fazzoletto su cui avevo scritto una poesia su Romero. Adesso quella lettera e quel fazzoletto sono conservati in Vaticano insieme a tutti i cimeli di Giovanni Paolo II.
La cosa che più desidero al mondo è di non morire prima che Romero sia dichiarato santo. Suor Teresita, con cui mi sono sempre tenuta in contatto, mi ha detto che nell’ospedale della Divina Provvidenza alcuni malati hanno ottenuto dei miracoli per intercessione di Romero. Suor Teresita mi aveva promesso che, se io fossi venuta a trovarla, mi avrebbe parlato di questi miracoli e mi avrebbe regalato i testi delle ultime omelie di Romero, ma negli ultimi dodici anni non sono mai riuscita ad andare in Salvador. Due anni fa è morta. Appena sarà possibile andrò a San Salvador a trovare madre Cuevas e le altre suore, cui chiederò di questi miracoli. Chissà, forse potrò anche raccogliere la testimonianza di qualche miracolato. Ma io non posso decidere, è il Signore che fa succedere le cose. Io non so se domani ci sarò ancora, il Signore ci prende quando vuole lui. Spero soltanto che questa mia testimonianza possa servire a qualcuno, specialmente a quelli che stanno lavorando al processo di canonizzazione di Romero.
Non so se la tua testimonianza potrà servire a quelle persone. Di certo serve a noi.