Lettura di un'onda 3 - L'utopia del modello
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Il Signor Palomar dunque osserva e riflette, mentre il suo Autore ci regala uno dei pezzi descrittivi che rendono così affascinante la sua prosa dalla nitidezza cristallina:
“La gobba dell'onda venendo avanti s'alza in un punto più che altrove ed è di lì che comincia a rimboccarsi di bianco. Se ciò avviene a una certa distanza da riva, la schiuma ha il tempo d'avvolgersi su se stessa e scomparire di nuovo come inghiottita e nello stesso momento tornare a invadere tutto, ma stavolta spuntare da sotto, come un tappeto bianco che risale la sponda per accogliere l'onda che arriva. Però, quando ci s'aspetta che l'onda rotoli sul tappeto, ci si accorge che non c'è più l'onda ma solo il tappeto, e anche questo rapidamente scompare, diventa un luccichio d'arena bagnata che si ritira veloce, come se a respingerlo fosse l'espandersi della sabbia asciutta e opaca che avanza il suo confine ondulato.”
L’intento del nostro signor Palomar dunque non è solo di guardare, ma da “uomo nervoso che vive in un mondo frenetico e congestionato” sembra che egli speri di trovare una cura contro il proprio smarrimento esistenziale, in una conoscenza semplice e ordinata basata su modelli ricavati dall’osservazione, da applicare poi a tutta la realtà.
Ci può essere qualcosa di rassicurante infatti nell’individuazione di un modello che serva a semplificare la complessità del reale, ma questo metodo usato nella scienza sperimentale si può poi applicare innocentemente a tutta la realtà?
Soffermiamoci su questo breve brano tratto da Il modello dei modelli, una delle ultime prose raccolte in Palomar:
“Nella vita del signor Palomar c’è stata un’epoca in cui la sua regola era questa: primo, costruire nella sua mente un modello, il più perfetto, logico, geometrico possibile; secondo, verificare se il modello s’adatta ai casi pratici osservabili nell’esperienza; terzo, apportare le correzioni necessarie perché modello e realtà coincidano. Questo procedimento, elaborato dai fisici e dagli astronomi che indagano sulla struttura della materia e dell’universo, pareva a Palomar il solo che gli permettesse d’affrontare i più aggrovigliati problemi umani, e in primo luogo quelli della società e del miglior modo di governare. Bisognava riuscire a tener presenti da una parte la realtà informe e dissennata della convivenza umana, che non fa che generare mostruosità e disastri, e dall’altra un modello d’organismo sociale perfetto, disegnato con linee nettamente tracciate, rette e circoli ed ellissi, parallelogrammi di forze, diagrammi con ascisse e ordinate. Per costruire un “modello”, Palomar lo sapeva, occorre partire da qualcosa, cioè bisogna avere dei principi da cui far discendere per deduzione il proprio ragionamento. Questi principi - detti anche assiomi o postulati - uno non se li sceglie ma li ha già, perché se non li avesse non potrebbe nemmeno mettersi a pensare. Anche Palomar dunque ne aveva, ma -non essendo né un matematico né un logico - non si curava di definirli. Dedurre era comunque una delle sue attività preferite, perché poteva dedicarvisi da solo e in silenzio, senza speciali attrezzature, in qualsiasi posto e momento, seduto in poltrona o passeggiando. Verso l’induzione invece aveva una certa diffidenza, forse perché le sue esperienze gli parevano approssimative e parziali. La costruzione d’un modello era dunque per lui un miracolo d’equilibrio tra i principi (lasciati nell’ombra) e l’esperienza (inafferrabile), ma il risultato doveva avere una consistenza molto più solida degli uni e dell’altra. In un modello ben costruito, infatti, ogni dettaglio dev’essere condizionato dagli altri, per cui tutto si tiene con assoluta coerenza, come in un meccanismo dove se si blocca un ingranaggio tutto si blocca. Il modello è per definizione quello in cui non c’è niente da cambiare, quello che funziona alla perfezione; mentre la realtà vediamo bene che non funziona e che si spappola da tutte le parti; dunque non resta che costringerla a prendere la forma del modello, con le buone o con le cattive”.