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“Il Visconte dimezzato” di Italo Calvino 4 – La percezione di un’incompletezza incolmabile

Fonte:
CulturaCattolica.it
Secondo la nostra lettura, il dimidiamento di cui parla Calvino non è riferito ad un uomo e ad un periodo storico particolare, ma all’uomo in quanto tale, con la sua percezione di una incompletezza incolmabile, mutilato in un tempo lontano e antico, perché e per colpa di chi non si sa.

Calvino aveva detto, riferendosi al romanzo:
Come un pittore può usare un ovvio contrasto di colori perché gli serve a dare evidenza a una forma, così io avevo usato un ben noto contrasto narrativo per dare evidenza a quel che mi interessava, cioè il dimidiamento.
Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso è l’uomo contemporaneo; Marx lo disse “alienato”, Freud “represso”; uno stato d’antica armonia è perduto, a una nuova completezza s’aspira
” (I. Calvino, Cercare chi e cosa in mezzo all’inferno non è inferno, Colloqui fiorentini, ed. DIESSE, 2008).
E infiniti sono i commenti e le interpretazioni che di questa affermazione ha dato la critica e possono cercare di dare i suoi lettori oggi.
Il dimidiamento di cui parla Calvino è stato infatti riferito all’uomo del ‘900 in crisi d’identità e alla ricerca di un nuovo rapporto con le cose, soprattutto negli anni immediatamente successivi alla guerra, all’intellettuale degli anni ’50 incerto sul ruolo da giocare nei confronti della cultura e della nuova società che tutti si auspicavano di veder sorgere e soprattutto gli intellettuali di Sinistra, e ancora il riferimento potrebbe estendersi ad ogni giovane uscito dalla guerra, da pochi anni conclusasi, privo di illusioni e di entusiasmi, dilaniato nel corpo e nello spirito.
Lo stesso Calvino viveva all’epoca del romanzo una profonda inquietudine per l’ inadeguatezza provata nei confronti di scrittori quali Pavese e Vittorini, ben più impegnati ed affermati di lui e per la responsabilità sociale che sentiva per l’epoca storica che viveva. (“Questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema troppo impegnativo e solenne per le mie forze”, ammetterà nel 1964 nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno).
Ciò che era stato detto dell’uomo contemporaneo poteva quindi riferirsi anche a lui.
A nostra volta come recepiamo, rileggendo questa “favola allegorica”, il suo tema fondamentale e il giudizio espresso dall’Autore sulla natura dimezzata dell’uomo?
Esiste nell’uomo del ‘900 e di ogni tempo una spaccatura interiore insanabile e la possibilità di un cammino da fare per ritrovare l’unità perduta (quell’ “antica armonia“ cui accenna Calvino)?
Tutte le chiavi di lettura proposte dalla critica sono accettabili, ma forse, secondo la nostra lettura, il dimidiamento di cui parla Calvino non è riferito ad un uomo e ad un periodo storico particolare, ma all’uomo in quanto tale, con la sua percezione di una incompletezza incolmabile, mutilato in un tempo lontano e antico, perché e per colpa di chi non si sa.
Personalmente non ritengo sia da escludere l’ipotesi per cui lo scrittore avesse sedimentato fra i suoi ricordi incancellabili anche la cacciata dall’Eden descritta nella Genesi, quando il primo uomo disobbedendo a Dio ha alterato e infranto la propria natura, introducendo il male nel suo cuore e nel mondo.
Se anche così fosse, Calvino non l’avrebbe mai riconosciuto, perché troppo orgoglioso per credere in una fonte di verità diversa dalla finzione letteraria e dal mondo da lui ricreato sulla carta.
Solo l’aspirazione ad una ritrovata completezza viene ammessa, come nostalgia però irrealizzabile.

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