“Il Visconte dimezzato” di Italo Calvino 3 – La “parte cattiva” di Medardo
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Il primo capitolo si apre nel bel mezzo della guerra contro i turchi in Boemia nella metà del Seicento, e il giovane visconte Medardo di Terralba si sta avvicinando a cavallo agli accampamenti cristiani, accompagnato dallo scudiero Curzio, più esperto e saggio di lui.
Mentre il giovane visconte attraversa i campi di battaglia della Boemia, per sconfiggere gli infedeli, cupi segnali di morte lo circondano e Medardo si rivolge a Curzio perché lo rassicuri e interpreti per lui la realtà ostile che scorge attorno a sé.
La voce narrante è di un bambino, il nipote di Medardo, e la storia è filtrata pertanto attraverso la sua ottica.
Con queste parole egli lo presenta: “Mio zio era allora nella prima giovinezza: l’età in cui i sentimenti stanno tutti in uno slancio confuso, non distinti ancora in male e in bene“ (Il visconte dimezzato, pag. 8). (NB Il testo al quale si fa riferimento nelle citazioni è: Italo Calvino, Il visconte dimezzato, Gli elefanti, Garzanti, 1985).
Medardo, raggiunto il campo dell’imperatore, non si sente particolarmente turbato da ciò che ha visto e che lo aspetta l’indomani e, senza apprensioni, trascorre la notte.
All’alba si butta nella mischia, vede un cannone, gli salta davanti con baldanza e decisione e un colpo di cannone lo fa saltare per aria.
Giunta la sera, nei due campi avversi si recuperano feriti e moribondi e i medici usano le membra dell’uno per risanare quelle dell’altro.
Tirato via un lenzuolo, appaiono le terrificanti mutilazioni di un corpo, quello del visconte del quale si era salvata solo la parte destra “che era peraltro perfettamente conservata, senza neanche una scalfittura, escluso quell’enorme squarcio che l’aveva separata dalla parte sinistra andata in briciole” (op. cit., pag. 17)
E con questo dimidiamento d’ora in poi Medardo dovrà fare i conti.
La notizia della sua sorte ben presto raggiunge Terralba, e il suo arrivo atteso e temuto semina sgomento fra gli abitanti quando scende dalla lettiga, avvolto in un mantello nero che lascia trasparire la sola metà sopravvissuta nel corpo straziato.
E’ la balia Sebastiana, che lo ha accudito da piccolo e gli legge nel cuore, a capire per prima che di Medardo è ritornata la “metà cattiva”.
Da quel momento tutti lo chiameranno con gli appellativi più strani: il Gramo, lo Zoppo, il Monco, l’Orbo, lo Sfiancato, il Mezzo Sordo, rifuggendo ogni contatto diretto con lui.
Soltanto il vecchio padre Aiolfo fa un ultimo tentativo: chiusosi da tempo nella uccelliera del castello con la sola compagnia dei suoi amati volatili, aveva addestrato una piccola averla, il suo uccellino prediletto, a volare nella stanza di Medardo al suo ritorno.
Arrivato il figlio al castello, gliela invia per portargli il suo saluto e il segno del suo amore paterno, ma ben presto Aiolfo sente un sordo tonfo contro le impannate della finestra: è l’averla stecchita con un’ala spezzata, una zampina strappata e un occhio divelto.
La servitù lo ritroverà poco dopo morto, circondato sul letto di morte soltanto dai suoi amati uccelli.
Il messaggio mandato da Medardo è inequivocabile: intende disconoscere e troncare ogni rapporto con gli uomini e col mondo.
Come ha respinto l’amore del padre, così egli rinnegherà ogni Altro sopra di sé, dal quale dipendere e sentirsi amato.
La sua nuova natura dimezzata e luciferina lo condanna alla solitudine ribelle e alla perfidia.