La novella di Amore e Psiche
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La novella di Amore e Psiche occupa una buona parte del romanzo di Apuleio, l’intero quinto libro e circa metà del IV e del VI (precisamente IV, 26-VI, 24): quasi un romanzo nel romanzo dunque. Benché l’inserimento di narrazioni anche di una certa estensione sia una delle caratteristiche usuali delle Metamorfosi (e in genere della cosiddetta “favola Milesia”), l’ampiezza di questa novella e il suo valore letterario ne fanno qualcosa di unico nell’economia del romanzo.
Occasione della narrazione: una giovane donna, insieme a Lucio (trasformato in asino), è caduta nelle mani di una banda di briganti e viene tenuta prigioniera nel loro covo. La donna si dispera, piange di continuo, non trova requie e rifiuta il cibo. In un momento di pausa, mentre i briganti sono lontani dal loro rifugio perché impegnati in una nuova impresa banditesca, una vecchia, loro complice, dopo avere tentato inutilmente di rasserenare l’animo della giovane prigioniera, cerca di distrarla con una narrazione. (Una situazione vagamente simile si ha nei Promessi Sposi quando Lucia è rapita dall’innominato, e tra la vecchia che in modo rozzo e maldestro cerca di consolare Lucia e la vecchia delle Metamorfosi c’è una qualche somiglianza: chissà se il romanzo di Apuleio ha influito in qualche modo, consciamente o inconsciamente, sul Manzoni?).
L’attacco ricorda da vicino quello delle fiabe, ed elementi fiabeschi percorrono tutta la trama del racconto: “C’erano in una città un re e una regina”. Questi sovrani hanno avuto dalla sorte il dono di tre belle figlie: ma mentre le prime due possono vantare una bellezza per così dire normale, la terza, Psiche, ha una bellezza talmente straordinaria, da ritorcersi contro di lei e da renderla infelice: è troppo bella per diventare la sposa di un mortale, nessuno la chiede in moglie e tutti la guardano come un essere divino, una seconda Venere che merita più culto che ammirazione, e che viene invocata con preghiere e sacrifici come fosse una dea. Secondo una logica diffusa nel mondo antico l’eccesso danneggia gli esseri umani e provoca il risentimento degli dèi. La gente invoca Psiche e si dimentica della vera Venere, e questa usurpazione delle prerogative divine irrita non poco la dea, che decide di punire questa sfacciata mortale chiedendo a suo figlio Amore di usare le sue frecce per farla innamorare di un mortale disgraziato, privo di beni e di salute, senza nessuna attrattiva. Nel frattempo i genitori di Psiche, vedendo che nessuno si presenta per richiedere la mano della figlia, chiedono all’oracolo di Apollo quali speranze vi siano per questa ragazza bella e infelice. L’oracolo del dio non ha la solita ambiguità dei testi profetici, ma preannunzia senza mezzi termini che Psiche deve essere esposta su una rupe e data in sposa a un mostro orrendo che vola e tormenta crudelmente tutte le creature. L’oracolo viene eseguito, ma, anziché essere preda di un mostro, Psiche viene sollevata prodigiosamente dal vento e portata in un palazzo incantato, dove non vi è presenza umana, e invisibili servitori, di cui sente solo la voce, le forniscono cibo e bevande e la accudiscono in ogni sua necessità. Durante la notte, nel buio più assoluto, Psiche viene visitata dall’ignoto marito: ne percepisce la presenza al tatto e alla voce, intuisce la bellezza di questo strano essere dotato di ali, ma non può vederlo. Questa vicenda si prolunga per diverso tempo: Psiche è felice della sua situazione, anche se il patto tra lei e l’ignoto marito prevede che non possa e non debba neppure tentare di vederne le fattezze.
Nel frattempo le sorelle di Psiche sono riuscite ad arrivare al palazzo di Psiche e, morse dall’invidia, fanno credere a Psiche (che è in attesa di un bimbo) di essere andata in sposa a un mostro repellente e la convincono a scoprire l’aspetto del marito. Nonostante le raccomandazioni più volte ribadite dallo sposo, Psiche si lascia vincere dalla curiosità, e la notte seguente, mentre l’ignaro marito dorme accanto a lei, sollevando una lanterna che aveva preparato per questo scopo, Psiche illumina la stanza, e si accorge che lo sposo non è il mostro che temeva, bensì il dio Amore.
La rivelazione complica la vicenda in modo drammatico: Amore fugge immediatamente, ferito anche da una goccia d’olio bollente che dalla lucerna gli è scivolata sulla spalla. Il dio vola via, e Psiche, che ha tentato di seguirlo afferrandosi a lui, viene portata in un luogo ignoto e lì abbandonata. Ripresasi, vagando a lungo per luoghi ignoti, si mette alla ricerca di Amore, che frattanto si è ritirato nelle sue stanze inaccessibili. Tutti questi eventi vengono alle orecchie di Venere, che, indignata per il comportamento scapestrato del figlio e soprattutto per la sua disubbidienza, chiede ai suoi aiutanti e agli altri dèi che la aiutino a ritrovare Psiche e a portarla nella sua divina dimora perché sia punita. Una volta ritrovatala, Venere sfoga tutta la sua collera su di lei e, senza farsi impietosire dalle sue suppliche e dalle sue insistenze, le ordina di portare a termine quattro prove che sarebbero umanamente impossibili, se in soccorso di Psiche non intervenissero con consigli e con aiuti concreti gli animali, le piante e addirittura gli oggetti del mondo circostante. Dopo aver superato le prime tre prove, mentre sta per portare a termine la quarta, Psiche sta per rovinare tutto un’altra volta: l’ultima prova consisteva nel recarsi agli inferi e portare a Venere un misterioso cofanetto in cui dovrebbe essere nascosta una parte della bellezza della dea infernale Proserpina. Sopraffatta dalla curiosità, Psiche decide di aprire il cofanetto, che però contiene soltanto un sonno mortale: la ragazza sta per essere soggiogata dal letargo, quando alla fine Amore, ormai rimesso dalla sua infermità e completamente vinto dalla passione per lei, arriva in suo soccorso. Il dio trova la sola possibile soluzione dell’intrigo: rivolgersi direttamente a Giove, che, un po’ perché si lascia convincere dalle parole di questo giovane un po’ intemperante (che peraltro gli ha fatto numerosi favori) e un po’ perché ritiene che convenga tenersi buono questo dio capriccioso e imprevedibile, fa celebrare uno splendido matrimonio, accogliendo Psiche fra gli immortali: e pure immortale sarà la bimba che darà alla luce, e che avrà il nome di Voluttà.
Sicuramente l’iniziazione di Apuleio ai misteri rende plausibile una lettura allegorica dell’episodio: molti vedono nelle difficili prove a cui Psiche viene sottoposta la raffigurazione delle prove che, secondo la dottrina misterica, l’anima dovrà affrontare nell’oltretomba per affinarsi definitivamente. Altri hanno studiato l’episodio come una fiaba di magia, individuandovi molti degli elementi che definiscono tale genere secondo le teorie antropologiche elaborate da Propp e dai suoi seguaci. Si è persino tentato di ritrovare nell’episodio tracce di racconti tradizionali berberi, facendo leva sul fatto che Apuleio era di origine nordafricana. Qui non ci addentriamo in queste complesse problematiche, e ci limitiamo a proporre una riflessione su un momento di grande letteratura che cattura il lettore col suo stile e col suo linguaggio affascinante (purtroppo in traduzione molti elementi si perdono): non è un caso, se tanti grandi artisti si sono ispirati a questo episodio per le loro creazioni (due nomi su tutti, quelli di Antonio Canova e di Auguste Rodin).
Le vicende di Psiche sono la metafora dell’uomo che alla fine si perde per la sua pretesa di sapere e di conoscere oltre i limiti del lecito. Per due volte Psiche è prossima alla disfatta e alla morte a causa della sua curiosità. «Ecce, rursum perieras, misella, simili curiositate» (Ecco, poveretta, ti sei quasi rovinata per una simile curiosità), dice Amore a Psiche nel momento in cui accorre a salvarla (VI, 21), e la frase acquista un significato più profondo, se si ricorda che curiositas è una parola chiave nella temperie culturale dell’epoca. Ma vi è una curiosità buona, che spinge l’uomo a chiedersi il significato di sé e del suo vivere, e una curiosità eccessiva, che si fonda su una pretesa e fa travalicare i confini della propria umanità esponendo l’uomo a pericoli e delusioni.
La descrizione delle divinità tradizionali è sottilmente ironica, con allusioni e parodie che prendono di mira anche la politica romana, ma senza eccessi. Venere seccata e nervosa, Cerere e Giunone che da buone comari un po’ pettegole la consolano con buoni consigli, Amore innamorato ma ipocondriaco per la scottatura alla spalla, sono rappresentazioni che sicuramente offuscano la maestà di questi dèi. Quel che è certo è che l’uomo non deve attendersi aiuto dalle divinità tradizionali: Psiche nel suo peregrinare alla ricerca di Amore entra nel tempio di Cerere e poi di Giunone e prega le due divinità, ma queste le rispondono esplicitamente che non possono intervenire in suo favore, per ragioni di amicizia e di diplomazia (i rapporti fra gli dèi sono complicati e non è buona cosa invadere la sfera di competenza delle colleghe dee). Ma, anche se dagli dèi tradizionali non ci si deve attendere soccorso, vi è un disegno provvidenziale che comunque rassicura l’uomo e gli rende possibile affrontare i momenti di difficoltà: «Le tribolazioni di quell'anima innocente non sfuggirono all'occhio attento della buona provvidenza» (VI, 15), si legge nel momento in cui le sorti della ragazza sembrano essere definitivamente segnate. La parola providentia ricorre più di una volta nel racconto: Psiche percepisce accanto a sé «la felicità della divina provvidenza» (V, 3), anche se il suo fato, definito di volta in volta crudele, triste, fiero, la obbliga ad affrontare momenti di amarezza e di scoramento: del resto è proprio la durezza del suo fato che le consente di non venir meno di fronte alle difficoltà: «Allora a Psiche vennero meno le forze e l'animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino» (V, 22).