Percy Jackson 3 - Genitori irresponsabili e figli eroici

Autore:
Platania, Marzia
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Ermes in particolare osserva malinconico il proprio figlio ribelle. Lui sa cose che il figlio non sa, e che non gli può dire: cosa è veramente successo alla madre, impazzita non per il dolore di essere lasciata, ma per un altro evento che riguarda il figlio. Cosciente che il figlio ha un destino che non conosce, lo lascia fare, dolorosamente (beh, è anche il dio del gioco d’azzardo, non dimentichiamolo), scommettendo sul suo finale ravvedimento. Replicando alle (educate) accuse di Percy al suo malvagio figlio (di cui Percy è pure rivale in amore) risponde che proprio questo significa essere una famiglia: avere un destino in comune, anche quando non ci si vuole bene come si dovrebbe. La sua capacità di aspettare con pazienza, non reagendo alla rabbia del figlio con uguale rabbia, né con spiegazioni che al momento egli non può accettare, ma lasciando al tempo di mostrare le sue ragioni, alla fine vince la contrapposizione del figlio, riportandolo nella giusta fazione. Fra tanti dèi sconsiderati, la sua pacata consapevolezza dei limiti della famiglia dell’Olimpo e la sua fedele accettazione lo fanno emergere alla fine come una figura che ha una sua nobiltà. Tutto diverso da Ares, classico padre distruttivo (insomma, dal dio della guerra effettivamente cosa altro pretendere?), che aggredisce i figli gettandogli addosso tutto il proprio disprezzo quando non sono all’altezza delle sue pretese, e dicendo alla propria figlia (che non per nulla nel campo agisce da bulletta indisponente ed odiosa) frasi come “Avrei dovuto fare in modo che questa impresa andasse ad uno dei miei figli maschi”. Naturalmente la figlia reagisce promettendo di fare l’impossibile, terrorizzata di perdere una occasione per farsi accettare da suo padre; e inevitabilmente questo la porta a fare scelte azzardate, e a combinare un disastro.
Le famiglie frantumate e ricomposte presentano poi il problema dei fratellastri. Percy scopre che il ciclope Tyson è, come quasi tutti i ciclopi, figlio di Poseidone, perciò suo fratellastro. I ciclopi sono spesso cattivi: Tyson è solo brutto e non troppo intelligente, ma comunque è imbarazzante averlo per fratello. Gli altri eroi prendono in giro Percy, o prendono in giro Tyson, costringendo Percy a difenderlo. Tyson è contentissimo di essere fratello di Percy, e Percy si sente in colpa a non esserlo altrettanto, ma comunque si vergogna di lui, e si vergogna di vergognarsi di lui. Deve fare un cammino prima di essere conquistato dalla semplicità e dall’affetto del fratellastro (che ha l’immediatezza e l’ingenuità, ma anche la grande sensibilità alle emozione tipiche dei ragazzi Down), e non solo impara ad accettarlo ma finisce col sentirne drammaticamente la mancanza quando si devono separare perché Tyson va a lavorare nelle officine del loro comune padre.
Le famiglie si reggono, anche se ferite, quando chi rimane è all’altezza del compito educativo, come la mamma di Percy.
Mia madre ha il potere di farmi sentire bene anche solo entrando nella mia stanza. […] Quando mi guarda, è come se vedesse in me tutte le cose buone, e nessuna delle cattive. Non l’ho mai sentita alzare la voce o dire qualcosa di sgarbato a qualcuno, nemmeno a me o a Gabe”.
Al termine della prima avventura, Percy si trova intrappolato nell’Ade con sua madre ed i suoi due amici; hanno una via di fuga che può servire solo per tre persone. Percy deve assolutamente andare via per fermare la guerra: entrambi gli amici si offrono di rimanere nell’Ade per permettergli di salvare la madre (era appunto lo scopo del loro essere lì). Percy tuttavia capisce che non può permettere agli amici di sacrificarsi per lui. “Mi voltai a guardare mia madre. Avrei voluto disperatamente sacrificare me stesso e usare l’ultima perla su di lei, ma sapevo cosa mi avrebbe detto. Non me lo avrebbe mai permesso. Dovevo riportare la folgore sull’Olimpo e dire a Zeus la verità. Dovevo fermare la guerra. Non mi avrebbe mai perdonato se avessi scelto di salvare lei”. La madre di Percy è riuscita ad insegnargli la legge della vita: dare la vita per un disegno che non ci appartiene, sacrificare il proprio progetto per il bene comune. Ha allevato comunque un eroe, capace di stare a fianco del proprio padre, e di difendere l’ordine che lui rappresenta.
Certo, non sempre la colpa è dei genitori. Annabeth, figlia di Atena e di un uomo mortale, è scappata di casa quando era piccola, sentendosi di troppo nella nuova famiglia del padre. Ha fatto un tentativo di riavvicinarsi al padre da adolescente, finito di nuovo male perché il padre, a suo giudizio, era disturbato dalla sua stranezza e preoccupato che la sua presenza fosse un pericolo per i fratellastri piccoli. Quando però viene rapita e i suoi amici si vedono costretti a chiedergli aiuto, il padre si dimostra molto diverso dalla descrizione che di lui dava la figlia: non solo tanto affezionato da rischiare la vita per salvarla, ma anche geniale e perfettamente informato del bizzarro mondo di pericoli e mostri in cui abita la figlia, ed impavido nell’affrontarlo, pur da semplice mortale. La sua nuova moglie, lungi dall'essere la strega da lei descritta, è gentile e accogliente. Gli amici possono così ricucire il rapporto tra Annabeth e la sua famiglia, aiutandola a vedere quello che per una serie di equivoci e di emozioni negative non riusciva più a vedere.
Alla fine della prima serie di avventure Percy Jackson ed i suoi amici salvano l’Olimpo e sono convocati dagli dèi per essere ricompensati. L’alquanto scontento Giove, seccato di dover ringraziare dei semplici mortali, suppone che Percy chieda ciò che tutti i mortali desiderano: l’immortalità, che rende gli uomini come dei.
Percy però rifiuta. Non vuole affatto diventare come loro, come suo padre…
Sapete cosa chiede Percy come ricompensa per aver salvato l’Olimpo? L’Olimpo dei padri assenti, dei padri incapaci? Chiede che non esistano più indeterminati, che ogni eroe venga entro il 13° anno di età obbligatoriamente riconosciuto dal suo divino genitore. Che nessun dio (nessuno) si permetta di avere figli e di non curarsene.
Esiste critica più feroce dell’irresponsabilità di tanti genitori eterni adolescenti di oggi? I figli, piccoli eroi che devono affrontare i loro mostri da soli, alzano la loro voce e ci comandano, se vogliamo tenere accesa la fiamma della civiltà occidentale, di curarci di loro almeno quanto basta a far sapere loro chi sono e che destino hanno.