Le teorie sul genere 3 - Il rifiuto del corpo vissuto: la relazione come limite
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B) La questione antropologica che è sottesa
Una nuova forma di separazione tra corpo e anima.
Riferiamo qui le osservazioni in merito di Francesco Botturi (La generazione del bene, Vita e Pensiero 2009).
Questa posizione che abbiamo illustrato e che egli chiama riduzionismo costruttivista è uno dei diversi modi con cui l’Europa Occidentale è giunta a negare una concezione unitaria del vivente corporeo umano. Il dualismo, com’è noto, ha radici lontane, dall’idea platonica del corpo come carcere, al dualismo moderno di tipo cartesiano in cui la centralità sul cogito prescinde da tutto ciò che è corporeo e mondano e le funzioni razionali sono il senso del mondo. Da qui il pensiero scientifico ha fatto del corpo una macchina che può continuamente essere modellata e cambiata. In questo quadro molto importante è stato il recupero sulla via dell’unità dovuto alla fenomenologia del corpo “vissuto”, cioè a tutta quella linea di pensiero (come Husserl o Merleau Ponty) che rilanciano l’unità psicofisica alla luce dell’esperienza, recuperando appunto l’esperienza. La concezione del «corpo vissuto» vede il corpo come relazione con il mondo e come azione nel mondo, è la sede dell’esperienza, è il luogo della vita psichica, in una unità per cui «l’uomo vive la sua carne e ne è vissuto» Le teorie del genere dissolvono il buon contributo della filosofia del “corpo vissuto”, perché tornano a separare la corporeità e la sessualità dall’esperienza e dalla interpretazione che se ne dà.
Il rifiuto del corpo vissuto: una relazionalità originaria che viene intesa come limite
Il corpo, osserva Botturi, è datità, portante in sé una relazionalità originaria nel segno della infermità e della vulnerabilità che sono una condizione non transitoria della esistenza. Il corpo ci è dato perché le sue caratteristiche (come l’essere bassi), i suoi cambiamenti (come il suo invecchiare), sono dei dati oltre la nostra volontà che interrogano la nostra libertà. Il corpo inoltre muore, e questa è la punta suprema della datità che apre a una domanda drammatica, perché sembra smentire l’unità con l’anima. E ancora: il corpo esprime “l’essere consegnato al bisogno del riconoscimento come attesta la vulnerabilità degli inizi”. E’ interessante che di questo J. Butler sia ben consapevole quando afferma: ”Il nostro corpo è consegnato sin dall’inizio al mondo degli altri, esso porta con sé la loro traccia”. L’infanzia è per Butler il paradigma della “inermità”, è il tempo in cui l’alterità interviene “in modo totalmente sottratto alla nostra disposizione.” Ne viene una drammatizzazione dell’identità narrativa, che accentua l’aspetto per cui il soggetto non può rientrare davvero in possesso della sua storia e deve riconoscere una alterità.
Il corpo è dunque una condizione che apre all’altro come significativo per la propria identità, come “l’essere consegnato al bisogno del riconoscimento e della relazione di riconoscimento” (Botturi).
Ma si può considerare questa condizione del corpo vissuto solo come limite e come impedimento, come fa Butler, che per questo lo nega, allora le conseguenze sono tante. Primariamente si perde la possibilità di una relazione positiva, si dissolve la possibilità di una relazione di riconoscimento come luogo di identificazione, si nega la possibile positiva relazione tra identità e differenza, e quel bisogno dell’altro che il soggetto ha per entrare e rientrare continuamente in possesso delle proprie facoltà. Ma, negando tutto questo, si nega l’evidenza dell’esperienza.
La posizione decostruttivista mostra evidente questa astrazione quando, affermando che tutto è costruzione sociale e non c’è nessuna evidenza di base, non riesce a dar ragione dello stesso desiderio che muove la critica: il desiderio di aprire nuove possibilità o, che è lo stesso, l’idea di uomo come essere creativo.