G. Verdi 4 - La rivoluzione verdiana nella drammaturgia

“...questo Cromwell certamente non è di grande interesse per le esigenze del teatro... "
Autore:
Merciai, Maurizio
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Verdi scrisse per il teatro; ne accolse principi e regole perché le condivideva, le sfruttò perché gli consentirono di esprimere la sua concezione di arte, le modificò quando ebbe bisogno di esprimere principi artistici che superavano quelli che aveva espresso fin allora; in un continuo divenire mai interrotto, che costituì una vera e propria rivoluzione.
Operò la più grande rivoluzione di tutto il teatro musicale e della musica, tout court, del secolo XIX (operò dal 1839 al 1893); una rivoluzione che investì, grazie a Giacomo Puccini (lo vedremo), anche il secolo successivo.

Si tratta di comprendere il tipo e la portata di quella rivoluzione, e anche il mondo che investì e i concetti che ne furono alla base; non fu una rivoluzione "pensata", "esterna", non fu basata su teorie più o meno astratte: fu una rivoluzione "interiore", "intima", relativa allo sviluppo artistico - drammaturgico che accompagnò Verdi per tutta la vita; fu una rivoluzione fatta "per sé", anche se tanto influì sul mondo musicale italiano e no.
Vediamone, sommariamente, i capisaldi: dall'opera "corale" (Nabucco, I Lombardi alla prima crociata), all'opera "a personaggi" (da Ernani fino a La traviata), all'opera "d'ambiente" (da I Vespri Siciliani ad Un ballo in maschera), all’“opera-poema”,(6) (dalla Forza del destino ad Aida), all'opera "totale" (Otello, Falstaff); fu quel "divenire", che lo portò a scardinare le forme codificate dai suoi predecessori, a mano a mano che non gli bastavano più, a proporre un tipo di opera sempre più rispondente all'idea drammaturgica che andava maturando; per dirla con Claudio Casini, "trasformò il melodramma in dramma senza aggettivi”.

Alcuni critici negano la rivoluzione verdiana perché Verdi non abbandonò mai le forme tipiche del melodramma, che aveva ereditato all'inizio della sua lunga carriera; le cosiddette arie, cavatine, cabalette, canzoni, romanze, concertati, recitativi, eccetera; è vero, le usò sempre, non le abbandonò mai; ma perché le usò? e, soprattutto, come le usò?
Verdi difese sempre quella che considerava la tradizione "vocale" italiana, che aveva avuto i suoi massimi esponenti in Palestrina (7) e in Marcello (8), ritenendola il nostro più autentico patrimonio musicale; da quella prese le mosse, accettando i canoni che, su quella, si erano innestati e codificati attraverso l'opera dei musicisti che lo avevano preceduto; su quei canoni impostò il suo modo di fare musica, e li adoperò sempre, quando li ritenne adatti e sufficienti ad esprimere ciò che intendeva, modificandoli, fin dalle prime opere, e rimodificandoli, ogni volta che li ritenne inadeguati al tipo di musica e di dramma che veniva evolvendosi nella sua incessante "maturazione artistica interiore", quella rivoluzione, che portò l'opera italiana dalle forme rossiniane, belliniane e donizettiane all' opera totale, che il Maestro lasciò in eredità ai suoi successori.

Ma non ne fu mai schiavo, li adoperò al fine di rendere al meglio ciò che voleva esprimere, piegandoli a quella che fu, di volta in volta, la sua espressione, il suo convincimento, la sua ispirazione; tre affermazioni en passant.

«... Poco m'importa della cosiddetta finitezza del canto: io amo far cantare le parti come voglio io; però, non posso dare né la voce né l'anima né quel certo non so che, che dovrebbe chiamarsi scintilla e vien comunemente definito con la frase 'aver il diavolo addosso'. "
«. .. ho ideato il Rigoletto senz'arie, senza finali, con una sfilza interminabile di duetti, perché così ero convinto. "

«... Sappiate che nel finale del 2° atto (del Trovatore - n.d.a.) (..) ho fatto del primo tempo non un adagio, come s'usa sempre, ma un tempo mosso, vivo, ecc. Ho creduto (se non m'inganno) di aver fatto bene, almeno ho fatto come ho sentito: un largo mi sarebbe stato impossibile. Dietro questo ho pensato di sopprimere la stretta, tanto più che non mi sembra necessaria pel dramma, e Jòrse Cammarano [il librettista - n.d.a.] non l'ha fatta che per secondare l'uso. "

Li perfezionò e li portò ad un livello di compiutezza, che non avevano mai raggiunto; poté farlo perché il suo genio glielo consentì sempre; tutto qui; è illuminante, in proposito, un passo del saggio di Frits Noske "Dentro l'opera" (vedi bibliografia):

“Trattando le convenzioni in modo non convenzionale, Verdi ristabilisce il topos come elemento tradizionale, cioè come procedimento che richiede di essere continuamente rinnovato. Così, in contrapposizione e al di sopra del compositore di minore importanza, che si sottomette alla convenzione perché non sa dominarla, il suo genio si rivela”

NOTE
6. Il termine compare in una lettera di Giuseppina Strepponi.
7. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-94)
8. Benedetto Marcello (1686-1739)