G. Verdi 3 - Il concetto di arte in Verdi

“..il fantastico è cosa che prova l’ingegno, il vero prova l’ingegno e l’animo...”
Autore:
Merciai, Maurizio
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Sono molte le lettere dalle quali si può comprendere quello che fu, per Verdi, il concetto di arte; ma ce n'è una, che è esemplare; è la lettera, che scrisse il 20 ottobre 1876 alla Contessa Clara Maffei (l'amica di una vita - la Clarina, come la chiamava affettuosamente), che, pur conoscendone la scontrosità, gli aveva chiesto un giudizio su una commedia del figlio di comuni amici: (2)

“... Sentii a Genova Color del Tempo. Vi sono delle qualità grandi: soprattutto un fare svelto che è una
particolarità francese; ma v'è poco in fondo. Copiare il Vero può essere una buona cosa, ma Inventare il Vero è meglio, molto meglio. Pare vi sia contraddizione in queste tre parole inventare il vero, ma domandatelo al Papà (3). Può darsi che Egli, il Papà si sia trovato con qualche Falstaff, ma difficilmente avrà incontrato un scellerato così scellerato come Jago, e mai e poi mai degli angioli come Cordelia Imogene Desdemona etc. etc. ... eppure sono tanto veri!... Copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non Pittura”
Quindi, l'essenza dell'opera d'arte è la creazione, l'invenzione, concetto vecchio come il mondo e da tutti accettato; ma per Verdi, l'artista è colui che "inventa il vero"; perché "copiare il vero può essere una buona cosa", ovviamente, per chi non sa fare di più, ma "inventare il vero è meglio, molto meglio"; solo chi riesce ad inventare il vero raggiunge le vette dell'arte, solo inventando il vero si può essere artisti; l'artista non si accontenta della "fotografia", cioè della riproduzione pedissequa della realtà, ma deve conseguire e raggiungere la "pittura", lo stadio della creazione.

Dunque, l'invenzione del vero, inteso come verità "ideale", anche al di fuori della logica storica, della coerenza del pensare secondo gli schemi collaudati della realtà, per giungere alla realtà "artistica", che, se così raggiunta, è "vera" come la realtà oggettiva; l'invenzione del vero al solo fine della "verità" dell'opera d'arte, di una verità, proprio per questo, più assoluta, più foriera di ideali, più carica di insegnamenti; parlando di Verdi, dobbiamo aggiungere di una verità etica (4).
Ma cosa è il "vero" a cui l'artista deve tendere? In una lettera del 1868 a Camille Du Lo¬de, si legge questa frase emblematica:

"... L'arte ha dei confini più larghi, anzi non ha confini. Può essere opera d'arte tanto una canzonetta, quanto un gran finale d'opera, se vi è l'ispirazione voluta. "

Ecco la parola chiave: ispirazione; è lì che l'artista può e deve trovare il Vero e il Bello, i due concetti cardini della poetica verdiana; scrive, il 14 maggio 1873, all'amico pittore napoletano Domenico Morelli:

"... [mi piace] tutto, tutto, purché il piccolo sia piccolo, il grande sia grande, il gaio sia gaio, ecc., ecc. Insomma, che tutto sia come deve essere: Vero e Bello. "

L'arte, quindi, deve essere Vera e Bella, dove il Bello è l'espressivo e il Vero è la sincerità, la verità, che l'artista di genio "inventa" di volta in volta, con la propria "ispirazione" (se c'è!); e dove deve cercarla? Lo dice il passo della lettera che scrisse, il 23 dicembre 1867, a Vincenzo Torelli (il padre dell'Achille, autore della commedia Color del tempo, che abbiamo già incontrato), che gli chiedeva consigli per la "carriera artistica" del figlio:

“... si metta una mano sul cuore, studi quello, e, se vi è una tempra d'artista, quello gli dirà tutto. "

Perché l'arte è universale (nessuno ne era più convinto di Verdi), ma sono i singoli individui a generarla, i singoli artisti, con il proprio genio e con la propria "tempra d'artista", se la posseggono nel loro intimo, nel loro "cuore", e se sanno quello che vogliono; Verdi lo sapeva, come dice al termine della lettera che scrisse al Conte Opprandino Arrivabene il 6 marzo 1868:

“Mi possono benissimo mancare le forze per arrivare dove io voglia, ma io so quello che voglio. "

Si badi bene, Verdi non intende, per "voglio", qualcosa che gli venga dal di fuori, il successo, o il denaro, o la considerazione dei critici, ma il risultato della propria ricerca nel campo artistico.
Concludo, emblematicamente, questo "capitolo" citando una frase di Giampiero Tintori, a proposito del Trovatore:

“…La grandezza di Verdi rende autentica ogni situazione. Un libretto come quello de Il trovatore nelle mani di un altro musicista poteva finire persino nel ridicolo; con Verdi diviene un imponente affresco drammatico…” (5)

NOTE
2. Una delle commedie più tarde di Achille Torelli, dimenticata come le altre; erano gli anni del "verismo".
3. Per Verdi il "papà" è Shakespeare, che egli considerava il padre di tutti i drammaturghi; ed egli si riteneva, prima che un musicista, un drammaturgo.
4. Pensiamo alle "verità", sulle quali ancora ci si interroga, senza aver trovato, per ora, risposte soddisfacenti, "nascoste" sotto le figure allegoriche (?) della Primavera del Botticelli.
5. Giampiero Tintori, Invito all'ascolto di Verdi, p. 169.