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Perché, oggi, lutto nazionale?

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Ma ho visto i morti sconosciuti … sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno … Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.»
(C. Pavese, La casa in collina)

Non sono diversi, quei corpi, dai morti ammazzati nella guerra in Siria e in tutte le guerre. Non sono diversi dai cristiani trucidati perché sono cristiani. Non sono diversi dai morti sepolti nel mare: morti da soli, nel buio, gridando e nessuno sentiva. Non sono diversi dai morti per le carestie, gli stenti, le lotte fratricide, lo sfruttamento, la sopraffazione. Non sono diversi, quei bambini nel sacco blu, dai bambini ogni giorno abortiti perché lo chiede lo Stato, perché non ti vuole tua madre.
E allora?
Perché, oggi, lutto nazionale? Perché un minuto di silenzio nelle scuole di ogni ordine e grado? Perché i telegiornali per loro, le edizioni straordinarie, gli speciali in tivù? Perché pagine e pagine sui giornali?
Quella fila di donne e di uomini bruciati, la carne a brandelli, annerita… Quei corpi annegati: acqua nei polmoni, occhi sbarrati… Quei piedi che scorgi: scalzi, o scarpe nuove per il viaggio… E quelle mani abbandonate…
Quelle carni violate non si possono nascondere: non sanno più dove metterle. Sono lì, in fila, in un hangar di aeroporto. Non si possono ridurre a una riga di comunicato stampa. Numero delle vittime: 111. Quei corpi occupano spazio da vivi e ancor più da morti. Sono ingombranti.
Sono diversi per questo, quei corpi. Si vedono e si possono toccare. Puzzano di bruciato, di alghe, di petrolio, di sangue, di sudore, di dolore. Puzzano di cadavere.
Nel mondo virtuale che riempie le nostre giornate, questa irruzione della carne è uno schiaffo: ti dice io esisto, ci sono.
E allora non è vero che non sono diversi, quei corpi, dagli altri morti ammazzati, trucidati, annegati, abortiti.
Occhi diversi, e peso, e altezza, e un timbro di voce, e un profumo, e una storia, e un destino ciascuno. Unico. Irripetibile.
Loro: quella fila di morti sulla battigia del mare. Nell’hangar dell’aeroporto. Quelli sepolti sul fondo del mare. Quelli che in Siria muoiono ogni giorno e non fanno (più) notizia. I cristiani sgozzati perché cristiani. I bambini abortiti perché lo vuole lo Stato, perché non li vogliono le loro madri.
I volti di Lampedusa, i loro corpi ingombranti ci ricordino tutti gli altri volti che non sappiamo o non vogliamo vedere. Così diversi, così uguali.

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