«O si fa la fede (e la carità) o si muore»
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Ho letto vari articoli sulla straordinaria visita di Papa Francesco a Lampedusa. È certo che quello che il Papa ha fatto e ha detto interroga la nostra coscienza, ci chiede di cambiare “registro”, provoca ad una responsabilità senza pari. È l’invito a vivere la fede senza compromessi, senza riduzioni, col coraggio di quel «martirio quotidiano» che, prima di essere provocato dai nemici della fede, è il dono totale di sé alla «carne ferita del Signore».
Molti osservatori hanno testimoniato questo shock salutare. Molti hanno dato voce al grido del Papa. Molti hanno compreso che qui «O si fa la fede (e la carità) o si muore» (per parafrasare il detto attribuito al povero Garibaldi, nella battaglia di Calatafimi).
Dobbiamo tutti imparare. E c’è un punto di quanto ha detto Papa Francesco che non possiamo cancellare. Lo dico con una immagine a me cara: «Non si può fare il mea culpa battendo il petto degli altri». Così risuoneranno le parole e i gesti dando una marcia nuova al nostro cammino umano e cristiano. E ho già ricordato il senso profondo delle parole ai «cari immigrati mussulmani»: altro che rinuncia alla appartenenza, che proprio papa Francesco ci ha calorosamente invitato a «non negoziare», ma l’invito a una serietà religiosa, a una lealtà con la tradizione che potrà portare frutti di conversione. E qui il Papa ci ha fatto capire che missione e testimonianza non sono proselitismo ideologico.
Allora che tristezza leggere alcuni commenti su alcuni giornali, quelli dei moralizzatori di turno, capaci solo di utilizzare le notizie non per imparare, ma come clava da usare contro gli avversari. Andate a leggere Maurizio Chierici sul Fatto quotidiano [Francesco, un Papa lontano dagli affari di Cl] e poi chiedetevi se all’autore interessava il Papa o gettare fango su un movimento che lui non approva. Se anche quel giornalista potesse incontrare (e non vorrei che fosse questa una ipotesi della impossibilità) il volto e l’esperienza vera di tanti giovani e adulti di CL, che condividono con autentica carità la vita di tanti diseredati. Se potesse andare ad incontrare Aldo Trento, o le favelas del Brasile ove hanno operato tanti ciellini, forse farebbe un servizio alla verità e agli uomini. Perché ci hanno stancato questi giornalisti-soloni che sanno solo indicare il male altrui. Sembrano più netturbini che testimoni (e proprio il Papa ricordava loro di essere testimoni del vero, del bello e del buono).
E che fastidio nel leggere l’articolo di Enzo Bianchi sulla Stampa, in cui, tra tante cose positive scritte, così afferma: Un gesto (quello del Papa) «capace di interrogare le coscienze – e anche di infastidirne molte, che però si dicono «pronte a difendere la vita», come si è visto e letto nei giorni che lo hanno preceduto – e di ridestare non tanto l’attenzione quanto le orecchie e il cuore di ciascuno, la capacità che ogni essere umano ha di riconoscere nell’altro un proprio simile, un fratello e una sorella che condivide la comune umanità al di là di ogni differenza di etnia, lingua, appartenenza». Ma perché, mentre questo grande Papa cerca di superare gli steccati, sono proprio alcuni di noi che continuano ad erigerli?
Non sarebbe meglio imparare? E smettere di interpretare i particolari, per rimanere nei propri schemi stantii? Santo Padre, aiutaci a fidarci del Signore, ad amare la Chiesa, a «prender il largo», come ogni istante ci testimoni!