“La masseria delle allodole” di Antonia Arslan 8 – Il cambiamento dei cuori
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Quando il mendicante trova ad Aleppo Djelal e gli parla delle prigioniere destinate alla morte, il giovane ricorda il passato, i sogni, l’amore puro per Azniv e prova rimorso per averla dimenticata, per non averla protetta e difesa:
“Come ha potuto abbandonare la sua colombella,quella a cui ha tenuto le mani sotto il bersò profumato? Immagini orrende e veridiche gli pesano sul cuore. Lei non lo aveva veramente respinto, era il suo pudore di vergine che l'aveva fatta balzare in piedi e arretrare. Lei non gli ha veramente detto di no. E lui, lui l'ha abbandonata, con la sua bellezza indifesa, a gendarmi, soldati, zaptié. L’esatta coscienza di ciò che è senza dubbio accaduto gli stringe il cuore in una morsa di ferro. La sua colomba, la sua rosa di maggio... Ricorda improvvisamente il cupo, vellutato colore, quasi un presagio, e il profumo delle rose del bersò. Come ha potuto cancellare tutto, perdersi ad Aleppo. E come sarà lei ora? E’ viva, prima di tutto? “Sì, è viva” gli dice immediatamente Nazim arrivando.
“Azniv è viva” ripete. Nel cuore di Djelal si fa strada un'immensa pietà per questa femmina contaminata, ma anche il nascosto sollievo che potrà essere il suo salvatore, romanticamente portarla via al galoppo, nutrirla, curarla e poi averla tutta per sé senza soprassalti di orgoglio”. (op. cit., pag. 223)
Aiuterà a realizzare il piano, sarà lui successivamente a trovare i passaporti tedeschi per i sopravvissuti e testimonierà a Costantinopoli sulle stragi avvenute, nel 1919.
Zareh, il fratello medico di Aleppo, affermato e rispettato nella città per la sua professione di medico, lascerà le sue occupazioni mondane e superficiali per sentire su di sé la responsabilità di aiutare e salvare le persone della famiglia delle quali a stento conservava il ricordo.
Ma sicuramente il personaggio che subisce l’evoluzione più profonda e cambia, quello al quale l’Arslan ha detto di affidare il senso del suo romanzo è Nazim il mendicante turco, che nelle festività pasquali si riempiva senza ritegno le tasche con i doni e le monete delle famiglie armene e che facendo la spia aveva rivelato ai turchi l’amore fra Djelal e la giovane armena.
Egli accetta di accompagnare Ismene e di combattere il male e vede nell’aiuto a Shushanig e ai bambini il suo riscatto. Comprerà le guardie, striscerà nella notte lungo i muri di Aleppo, salverà Shushanig dalla morte, nutrendola con l’amore di un padre, chiederà denaro alla Confraternita dei mendicanti che lo appoggeranno e sentendo il suo cuore cambiare, cambierà per sempre la sua esistenza.
"Io sono più furbo di loro. Io salverò la Valídé Hanun. Io non sono un uomo da poco" e altrettanto improvvisamente sente la pietà vera dell'uomo, la pietà grande che ci rende fratelli: si inginocchia vicino a loro, con fatica, piegando la gamba offesa, e li abbraccia. Sono loro tre così soli. Contro il Grande Male. Poi Nazim racconta, in fretta, e dice: “Io non tornerò indietro. Mio figlio può pensare a sua madre, e all'altra moglie. Io ho visto il mio destino. Li salverò, e poi farò il mendicante ad Aleppo, o mi trascinerò fino alla Mecca per morire'. Ma prima bisogna riportare indietro il carro e recuperare la carrozza”. (op.cit., pag.177)
Si chiude così il libro sull’ultimo incontro fra Zareh e Deljal che, salvati i prigionieri, fra le lacrime ricordano le vicende passate e ciò che non scorderanno mai di aver visto.
Ma non può cancellarsi nel lettore di questo racconto la domanda sul senso di questa tragedia e degli orrori perpetrati nei confronti di un popolo inerme e innocente.
In un’intervista fatta a Rimini nel 2005 è riportato il giudizio che l’Arslan ha espresso su quanto ha raccontato:
"Pensando alle atrocità subite dal popolo armeno, ai bambini trucidati, alle donne che subivano ogni sorta di violenza, ai vecchi lasciati morire nel deserto, agli uomini
passati per le armi, non c'è altra alternativa.
Per quella tragedia è un giudizio senza appello e l'ultima parola è la Misericordia di Dio per quelle anime.
Solo questa prospettiva può togliere al racconto di una vicenda così terribile la sensazione che al male non vi sia scampo. È per questo che alla fine, anche per chi resta sono vere le parole “et Jesum post hoc exilium ostende” che si recitano nel Salve Regina".
E questo sguardo carico di pietà e di misericordia è anche il nostro.