William Shakespeare: le grandi tragedie

Il Per-Corso e i percorsi.

Schede di revisione di letteratura italiana ed europea
Autore:
Filippetti, Roberto
Fonte:
www.itacalibri.it
Articoli Correlati
Vai a "Moderna"

Tra il 1600 e il 1606 Shakespeare scrive le quattro grandi tragedie: Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth. Qui la drammatica perplessità e l'inquietudine si fanno disperanti, perché in ogni ambito il moderno cinismo sembra aver tolto la possibilità di fondare l'umana convivenza: si sono sbriciolati l'amore materno, l'amicizia, la fedeltà (Amleto), il rapporto filiale (Re Lear), l'amore e la fiducia coniugale (Otello), il dovere dell'ospitalità e la lealtà al sovrano (Macbeth).
Nel Medioevo la certezza che il reale è stato creato e redento costituiva il fondamento su cui edificare e garantiva la possibilità della risalita dagli inevitabili tradimenti. Ora, come dice Amleto in chiusura del I atto «il mondo è fuori di sesto». Perso il «centro del cosmo e della storia», tutto è in balìa del caos: al disordine nei rapporti interpersonali corrisponde l'anarchia dei regni, mentre anche la natura sembra farsi "snaturata".
Chi provoca la tragedia è il moderno «uomo nuovo», che crede di potersi fare da sé, obbedendo all'istinto e all'ambizione di potere, servendosi con malizia machiavellica di violenza e menzogna. Dapprima egli sembra riuscire nell'impresa di affermare la propria signoria su tutto, ma poi diventa vittima di se stesso: non può permettersi di cedere ad alcuna debolezza; deve conservare la propria cinica maschera, in una spirale di violenza in cui un delitto chiama l'altro; avendo attorno a sé esclusivamente dei complici, non può fidarsi di alcun amico; rimasto solo, è costretto a fare i conti con la propria coscienza e a riconoscere il totale non senso della propria vita.
Vuoto di significato, vuoto della morte: dei personaggi principali di queste quattro tragedie, nessuno resta in vita (anche Cordelia, la dolce figlia del Re Lear, muore). Coloro che sopravvivono e che si sono battuti per vincere il male (Fortebraccio, Malcolm) sono poco più che nomi: Shakespeare non sa dare loro consistenza perché neppure lui conosce la via per uscire dal disordine.
Ha scritto Victor Hugo: «Amleto rappresenta il disagio dell'animo umano». La radice di quel «male di vivere» che attraverserà la letteratura dell'Otto-Novecento, è già tutta nel celeberrimo monologo dell'atto III: «Essere o non essere, ecco il problema...».
Perso di vista l'orizzonte cristiano, all'uomo non resta che il tragico bivio dello stoicismo: è più nobile sopportare un'esistenza vessata dagli oltraggi della Fortuna, o togliersi la vita? «Chi sopporterebbe le sferzate e le irrisioni del mondo, l'ingiustizia dell'oppressore, la contumelia del superbo, gli spasimi dell'amore disprezzato, gli indugi della legge, l'insolenza del potere e gli insulti che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potesse procurarsi la sua liberazione con un nudo pugnale? Chi vorrebbe sopportare i fardelli, gemere e sudare sotto il peso d'una vita d'affanni se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, la regione inesplorata dai cui confini nessun viaggiatore ritorna, paralizza la volontà e ci fa sopportare quei mali che soffriamo piuttosto che volare incontro ad altri che non conosciamo?».
Il suicidio sarebbe azione coraggiosa, ma la riflessione - «il pallido raggio del pensiero» - «ci rende tutti codardi». Da ciò discende un nichilismo disperato. «Noi ingrassiamo tutti gli altri animali perché ingrassino noi, e ingrassiamo noi stessi per i vermi. Il re grasso e il mendicante sparuto non sono che dieta variata, due pietanze ma per la stessa tavola: e questa è la fine» (IV, 3). Tutto è vanità: «La vita dell'uomo non dura più del tempo che occorre per contare "uno"» (V, 2).

Macbeth

L'Amleto ha suscitato giudizi contrastanti, spesso entusiastici, ma a volte durissimi (Eliot lo definisce «certissimamente un fallimento dal punto di vista artistico»).
Pressoché unanimi sono invece i consensi attorno al Macbeth: quest'opera è una delle «più potenti realizzazioni della mente umana. Forse sono state composte tragedie più perfette; ma nessuno ne ha mai scritto una più grande» (Hazelton Spencer). G. Wilson Knight ne parla come della «più matura visione del male» mai offertaci da Shakespeare.
Come nota Caroline F. Spurgeon, il motivo conduttore della tragedia è quello della sproporzione tra le grandi ambizioni di Macbeth e la sua reale statura. Shakespeare dice di aver messo «il manto di un gigante addosso al nano che l'ha rubato».
La vicenda, veramente accaduta nell'XI secolo, è in sé molto semplice: Duncan, re di Scozia, viene ucciso da un suo generale, Macbeth, con la complicità di lady Macbeth. L'assassinio e l'usurpazione del trono mandano in frantumi l'ordine sociale: Duncan è infatti il simbolo della serena e giusta convivenza. Macbeth, minando alle basi questa armonia civile, spalanca le porte all'anarchia e al caos, mentre sale la febbre della violenza. Solo con la morte dell'usurpatore e l'ascesa al trono di Malcolm, legittimo erede di Duncan, viene restaurata l'armonia sociale.
Tanto la vicenda è semplice, quanto complesso è il dramma che si svolge nella coscienza dei due protagonisti. Ripercorriamolo analiticamente.

Atto I

Macbeth compare come eroe valoroso e leale che ha strenuamente difeso in battaglia il suo re. Ma fin dalla primissima scena erano comparse, tra tuoni e lampi, le tre streghe (le «sorelle del destino», ovvero le Norne della mitologia nordica, corrispondenti alle Parche romane e alle Moire greche). E si erano presentate all'insegna della menzognera equivalenza e intercambiabilità degli opposti: promettono di rivedersi quando la battaglia sarà «vinta e perduta»; affermano che «il bello è brutto, il brutto è bello».
Il poeta e critico S.T. Coleridge, padre del culto romantico di Shakespeare, ha acutamente riconosciuto in queste parole «la nota-chiave dell'intera tragedia», in quanto esprimono il culmine del caos spirituale e del disordine morale, il rovesciamento e il sovvertimento dei valori più evidenti: se il bello è brutto, allora il bene è male, il vero è falso. C'è già qui in nuce, come si documenterà, il dramma della coscienza di Macbeth, il quale si perde proprio perché la sua sfrenata ambizione di potere s'incontra con l'ambiguità della parola, con la perfida ambivalenza delle profezie fatte dalle streghe.
Quando egli compare, nella terza scena, la sua prima battuta riecheggia emblematicamente quella delle tre streghe: «Una giornata così brutta e così bella non l'ho mai veduta» (anche se qui c'è una spiegazione logica: brutta per il tempo, bella per la vittoria in battaglia). Quindi le «sorelle del destino» gli dicono che un giorno sarà re e lo salutano come «barone di Cawdor»; di lì a poco la realtà conferma il vaticinio. Duncan lo gratifica proprio di quel titolo nobiliare. «Può il diavolo dire il vero? - si chiede Banquo -. Spesso, per portarci alla perdizione, gli strumenti delle tenebre ci dicono alcune verità, ci convincono con oneste sciocchezze, per poi ingannarci sui fatti di più gravi conseguenze». Così sarà.
La decisione dell'omicidio è sofferta: a Macbeth la sola idea fa «rizzare i capelli d'orrore» e battere il cuore «in modo innaturale». Tuttavia, istigato dalla perfida «lingua» di sua moglie (cf Adamo ed Eva), egli cede alla tentazione di uccidere il cugino Duncan (cf Caino e Abele) per realizzare i propri «tenebrosi e cupi desideri». Tanto lui è titubante quanto lei è cinicamente decisa: «Prendi l'aspetto del fiore innocente, ma sii il serpe che sta sotto»; «andiamo e inganniamo il mondo con il più candido aspetto».

Atto II

Nel cuore di «una notte tempestosa» Duncan viene assassinato da Macbeth, mentre è ospite nel suo castello. La colpa viene fatta ricadere sui due ciambellani del re, prontamente uccisi perché non si possano difendere.
Macbeth viene incoronato. Mentre la «demoniaca regina» si mantiene fredda e capace di calcolare tutti i dettagli del delitto perfetto, lui ha paura, e continua a guardare le proprie «mani di carnefice»: quelle mani insanguinate che neanche l'oceano potrebbe lavare; quelle mani che gli «strappano gli occhi». Lady Macbeth dice invece, pilatescamente: «Un po' d'acqua ci netterà di quest'azione».
Nell'ultima scena il nobile Ross e un saggio vecchio registrano come anche la natura sia snaturata: è ormai giorno, eppure «la buia notte» ne «soffoca il lume» (come il giorno della crocifissione di Gesù); una civetta ha attaccato un falcone; i cavalli di Duncan, rinselvatichiti, si sbranano a vicenda. Tutti fatti «contro natura, proprio come il misfatto che è stato commesso». Infine il vecchio saluta: «La benedizione di Dio sia con voi, e con coloro che vorrebbero mutare il male in bene e i nemici in amici». E' la posizione opposta a quella delle streghe: qui viene benedetto chi domanda il miracolo del cambiamento. E Shakespeare ammette la possibilità del miracolo: «Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non sogni la tua filosofia» (Amleto 1, 5). Ma nelle quattro tragedie questo miracolo non avviene.

Atto III

Macbeth trama per far uccidere Banquo e suo figlio Fleance che, secondo la profezia delle «sorelle fatali», sarebbe diventato re.
Lady Macbeth, colei che era apparsa finora come la Furia istigatrice dell'assassinio, comincia a mutarsi in «un povera donna svuotata di ogni energia e dominata da un senso di indicibile stanchezza e delusione» (Elio Chinol). Confessa infatti: «Ogni sforzo è sprecato e nulla è ottenuto quando senza letizia s'appaga un desiderio: meglio essere ciò che si distrugge, piuttosto che inseguire con la distruzione una gioia che ci sfugge».
Tragico destino dell'uomo moderno: illudersi che il «possesso» di cose o persone dia la felicità, per poi piombare - una volta ghermito l'oggetto - nella più cupa delusione.
Alla moglie fa eco il lamento dell'usurpatore: «Meglio essere coi morti che abbiamo mandato alla loro pace per guadagnarci la nostra, piuttosto che patire la tortura dell'anima in un'inquieta agonia».
Egli perde il sonno, vede lo spettro di Banquo assassinato, si sente affetto da una «strana malattia». Ma, giunto in mezzo al guado del fiume di sangue, decide di procedere.

Atti IV-V

Nell'antro delle streghe, apparizioni demoniache gli profetizzano che «nessun uomo partorito da donna» potrà fargli del male, e lui verrà ucciso da Macduff, il quale era stato «strappato anzi tempo dal ventre di sua madre»; sembrano tranquillizzarlo col dirgli che «Macbeth non sarà mai vinto finché la grande foresta di Birman non moverà contro di lui fin sull'alto colle di Dunsinane», e verrà sconfitto da un esercito che, mimetizzandosi con rami frondosi, sembrerà «una foresta che si muove».
Allora Macbeth capirà: «Comincio a temere l'equivocare del Diavolo, che dà alle menzogne il timbro della verità»; «che io non creda più a questi dèmoni ingannatori, i quali con i loro doppi sensi mantengono la parola di promessa per l'orecchio, ma la violano per la nostra speranza».
San Giovanni osserva amaramente che «il mondo è tutto posto nella menzogna», da cui deriva l'umana disperazione: il Macbeth ne è un exemplum.
In apertura del V atto lady Macbeth, sonnambula, cerca ossessivamente di lavarsi via il sangue dalle mani: ha addosso un male che sembra essere immedicabile. Il dottore, chiamato per curarla, riconosce: «Ha più bisogno del prete, lei, che del medico. Dio, Dio ci perdoni tutti!». Di lì a poco la donna si toglie la vita. Quando Macbeth lo viene a sapere, prorompe nel suo ultimo, breve monologo. «Forse non sono da trovarsi nemmeno in Shakespeare altri versi che esprimano un così desolato senso di resa, un così acre sapore di disfacimento e di morte spirituale» (E. Chinol): «La vita è solo un'ombra che cammina, un povero attore che tutto tronfio si dimena durante la sua ora sulla scena, e poi non se ne sa più nulla; è una storia raccontata da un idiota, piena di clamore e di furia, che non significa nulla».
Solo nel figlio di Duncan, Malcolm (e nel suo leale amico Macduff) permane il riconoscimento di un senso e di un'ultima positività delle cose: «Gli angeli restano splendenti, anche se il più splendente cadde. Se anche la perfidia prendesse le sembianze della grazia, la grazia deve sempre conservare il proprio volto».

La tempesta

Questo giudizio, che nelle tragedie maggiori rimane allo stato germinale, fiorisce nell'ultimo capolavoro: La tempesta (1611-12).
Alcuni critici parlano di una vera e propria conversione di Shakespeare. Il male, le gelosie, gli intrighi per il potere non sono eliminati, ma devono fare i conti con nuovi potenti agenti quali il pentimento, la comprensione, il desiderio di cambiare vita, e soprattutto il perdono: è questo che permette al malvagio di uscire dalla spirale «sangue chiama sangue» (Macbeth III, 4), di cambiare, di ricominciare.
Prospero, legittimo duca di Milano, viene tradito dal fratello-usurpatore Antonio, in combutta col re di Napoli Alonzo e con Sebastiano, fratello di quest'ultimo; ma riesce a salvarsi e a riparare in un'isola.
Qui, tempo dopo, approdano, a seguito di un naufragio, i tre malvagi ai quali Ariele, spirito dell'aria al servizio di Prospero, suggerisce il «pentimento sincero». E ciò avviene. «Ti scongiuro di perdonarmi le mie colpe»: così Alonzo implora Prospero, il quale, convinto che «più nel perdono che nella vendetta è l'atto raro», è misericordioso con lui, e anche con gli altri due. Miranda e Ferdinando, eredi rispettivamente del legittimo duca di Milano e del re di Napoli, unendosi in matrimonio sono portatori di una realistica speranza per il futuro personale e degli Stati: infatti non sono figli di un'astratta innocenza naturale né della tragica prigionia entro un male irredimibile; sono invece figli, per dirla col vecchio saggio del Macbeth, di un'esperienza che ha mutato «il male in bene e i nemici in amici».
Succede così, come per miracolo, che ciascuno ritrovi la propria identità e la verità di sé. Dice Gonzalo, il vecchio onesto consigliere che ha aiutato Prospero a salvarsi: «Noi tutti ritroviamo noi stessi quando nessuno era ormai più se stesso».