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Torquato Tasso

Autore:
Filippetti, Roberto
Fonte:
www.itacalibri.it
Il Per-Corso e i percorsi.

Schede di revisione di letteratura italiana ed europea

«Oh misero Torquato! il dolce canto / non valse a consolarlo a sciorre il gelo / onde l’alma t’avean, ch’era sì calda, / cinta l’odio e l’immondo / livor privato e dei tiranni. Amore, / amor, di nostra vita ultimo inganno, / t’abbandonava. Ombra reale e salda / ti parve il nulla, e il mondo / inabitata piaggia. Al tardo onore / non sorser gli occhi tuoi; mercé, non danno / l’ora estrema ti fu. Morte domanda / chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda».
Così, nella canzone Ad Angelo Mai, il simpatetico Leopardi si rivolge al suo Torquato Tasso. E il Recanatese sembra «mimarne» anche la predilezione per l’enjambement, che - come nota il Fubini - esprime «sempre, in grado maggiore o minore, una dissonanza». La dissonanza traduce a livello formale una frattura che è nella vita umana in quanto tale: perso il «centro», l’uomo moderno sente l’incombenza del nulla, l’inabitabilità del mondo, l’ineluttabilità del «nostro mal». Nei mesi del soggiorno romano, tra il 1822 e il 1823, la visita al sepolcro del Tasso è l’unica esperienza che commuove profondamente Leopardi.
Negli ultimi due secoli - da Goethe a Byron, da Baudelaire a Kafka - Tasso è stato mitizzato quale genio altissimo, dalla vita malinconica ed errabonda, sempre in contrasto con la meschinità dei suoi contemporanei.
Oggi, per dirla con Bruno Maier, egli ci appare come colui che sta all’inizio della «moderna letteratura dell’inquietudine e del tormento, della malattia e della crisi, della perplessità e delle insidiate e deluse certezze».

Una vita travagliata

Davvero la sua vita fu travagliata ed errabonda. Nato a Sorrento nel 1544, inizia gli studi a Napoli, dai gesuiti.
A dieci anni è a Roma; a dodici perde la madre; a tredici a Urbino, è affascinato dalla corte dei Della Rovere; a quindici, a Venezia, è la guerra contro i Turchi a suggestionarlo, tanto da ispirargli il Gierusalemme, primo abbozzo del futuro capolavoro; a sedici frequenta l’università di Padova, capitale dell’aristotelismo; dopo un breve periodo a Bologna, torna a Padova, ove entra in contatto con l’Accademia degli Infiammati, poi con quella degli Eterei.
Conclusi gli studi, nel ‘65 entra al servizio del cardinale Luigi d’Este e prende dimora presso la corte di Ferrara, in festa per le nozze del duca Alfonso II. Si apre allora il decennio più felice e creativo della sua esistenza. Circondato da stima e ammirazione, in fecondo rapporto con i più grandi letterati, ben inserito a corte e, dal ‘72, stipendiato come gentiluomo del duca, può dedicarsi con entusiasmo e a tempo pieno alla propria opera poetica; del ‘73 è l’Aminta, nell’estate ‘75 è completata la Gerusalemme liberata.
Egli s’aspettava, e a ragione, successo incontrastato e gloria incondizionata; vennero invece critiche meschine, frutto d’invidia e di pedanteria accademica.
E’ per questo che s’incrinò il suo equilibrio psichico? Non sappiamo.
Certo è che l’ultimo ventennio della sua vita fu dolorosissimo. «Fu assalito da dubbi maniacali sulla propria ortodossia nella fede cattolica, e nel 1577 si sottopose spontaneamente all’inquisizione di Ferrara per fugare i propri dubbi; naturalmente fu assolto ma questo non valse a placare i suoi rovelli» (Baldi). Preso da nevrastenica mania di persecuzione, scagliò un coltello contro un servo da cui si credeva spiato; rinchiuso in un convento, fuggì e raggiunse la sorella a Sorrento; poi fu ancora a Ferrara, Mantova, Padova, Venezia, Urbino, Torino.
Tornato a Ferrara, nel ‘79, durante le terze nozze del duca, sentendosi trascurato diede in escandescenze e lanciò ingiurie contro Alfonso, che lo fece rinchiudere nel monastero di Sant’Anna, ove rimase per sette anni, fino al 1586.
In seguito riprese a peregrinare: Mantova, Bologna, Loreto, Roma, Napoli, Firenze.
Tornato a Roma per godersi una pensione assegnatagli dal papa Clemente VIII, che ne voleva l’incoronazione poetica in Campidoglio, egli si ammalò gravemente e chiese ospitalità ai frati del monastero di Sant’Onofrio sul Gianicolo. Qui morì il 25 aprile 1595, senza la «ghirlanda» dell’incoronazione poetica.
Ma la sua fama e l’entusiasmo per la sua opera si erano ormai diffusi in tutta l’Italia, non solo fra i colti: generazioni di montanari e contadini, di artigiani e di gondolieri veneziani hanno mandato a memoria i passi più famosi del suo poema.

In un tempo di crisi

La seconda metà del Cinquecento, l’epoca del Tasso, fu un tempo molto simile al nostro, segnato dalla crisi: «Un’epoca nella quale filosofia e scienza aprirono il cosmo a nuovi e sgomentati orizzonti di mondi infiniti» (Mimmo Stolfi).
Il poeta visse drammaticamente la lacerazione tra edonismo rinascimentale e ideali della Riforma cattolica, che ispirano rispettivamente l’Aminta e la Gerusalemme Liberata.

L’Aminta

L’Aminta è una «favola pastorale», ovvero un testo drammatico che mette in scena l’amore del protagonista per la ninfa Silvia, la quale però - tutta dedita alla caccia - non lo ricambia. La notizia, recata dalla ninfa-messaggera Nerina (nome che sarà, dopo Silvia, carissimo a Leopardi), della presunta morte dell’amata, porta il pastore a tentare il suicidio. Silvia si getta allora in lacrime sul corpo di Aminta che crede morto, ma questi rinviene e la vicenda si chiude col lieto fine.
Tutto il dramma vagheggia una mitica età dell’oro, in cui la passione amorosa e la libera espressione dell’istinto erotico erano vissuti come cosa innocente e felice, senza remore o sensi di colpa. Vale anche qui ciò che s’è detto per la Mandragola di Machiavelli: entro l’orizzonte del naturalismo rinascimentale, il bene sta nel seguire gli impulsi e gli istinti naturali; il male nel contraddirne l’energia vitale. Quello che Petrarca valorizza come «pregio de l’onestate» (Canz, XXIX, 47) è nel Prologo dell’Aminta stigmatizzato come «rigor de l’onestate», ovvero - come spiega Giorgio Cerboni Baiardi - «la tirannia di una falsa e frustrante concezione dell’onore femminile» che impedisce il «naturale amore». Silvia, che ha subìto questa tirannia, infine - pentita - se ne libera, e riconosce: «... la mia crudeltate, / ch’io chiamava onestate; e ben fu tale: / ma fu troppo severa e rigorosa: / or me ne accorgo e pento» (vv. 1594-97).
Nel celebre Coro dell’atto I (e il coro, qui come nella tragedia greca, interpreta e rispecchia la mentalità dominante fra gli spettatori del tempo), Tasso contrappone al moralismo dell’«onore» e al formalismo sociale con le sue norme e convenzioni, l’edonismo di una vita secondo natura: la «bella età de l’oro» è tale non perché in quei remoti tempi di «primavera eterna» scorressero fiumi di latte e miele, «ma sol perché quel vano / nome senza oggetto, / quell’idolo d’errori, idol d’inganno, / quel che dal volgo insano / onor poscia fu detto, / che di nostra natura ‘l feo tiranno, / non mischiava il suo affanno / fra le liete dolcezze / de l’amoroso gregge; / né fu sua dura legge / nota a quell’alme in libertate avvezze, / ma legge aurea e felice / che natura scolpì: S’ei piace ei lice» (vv. 669-681).
Libet licet: aurea legge dell’edonismo naturalistico.
Non a caso Dante, nel V dell’Inferno (vv. 55-56), stigmatizza la regina d’Assiria Semiramide, la quale «a vizio di lussuria fu sì rotta, / che libito licito in sua legge» (il poeta traduce qui le Historiae di Orosio: «...quod cuique libitum esset, licitum fieret»). E’ un chiaro giudizio di valore: per Dante il bene è bene e il male è male, anche se piacevole. Boccaccio invece, quasi con l’impassibilità del cronista, registra un dato storico: nella «Cornice» del Decameron annota che, a motivo della peste, l’autorità si era dissolta, per cui «era a ciascuno licito, quanto a grado gli era, d’adoperare»; non poche sue novelle sono poi ispirate al libet licet.
Non vi è chi non veda come, dopo la Mandragola di Machiavelli e l’Aminta di Tasso, naturalismo ed edonismo si riaffaccino negli ultimi tre secoli, a partire dall’illuminismo (Rousseau), passando per l’estetismo decadente (si pensi a Il piacere di D’Annunzio) e per il superomismo che - per definizione - si pone «al di là del bene e del male», fino a diventare oggi mentalità dominante, pervasivamente imposta dalla letteratura (Moravia è stato in ciò emblematico), dalla musica, dal cinema, da quasi tutti i mass media.

La Gerusalemme liberata

Negli stessi anni in cui scrive l’Aminta, Tasso lavora alla Gerusalemme liberata.
Siamo nell’età di Filippo II: colui che da Carlo V ha ereditato i domini italo-spagnoli; colui che, animato da spirito di crociata e in sintonia col papa Pio V, vuole spendersi per difendere il cattolicesimo sia dagli eretici che dagli infedeli. La grande battaglia di Lepanto, vinta dalla Lega cristiana contro i Turchi (e fra i combattenti cristiani c’era anche Cervantes), è del 1571.
Tasso si sente spronato a lavorare alla Liberata che termina nel ‘75: cantare le gesta della prima crociata aiuta a vivere con verità il nuovo confronto tra mondo cattolico e islamico.
Il poema si apre con un distico che ne sintetizza l’argomento: «Canto l’arme pietose e ‘l capitano / che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo». Goffredo di Buglione, a capo delle milizie cristiane «sotto a i santi / segni ridusse i suoi compagni erranti»: erranti come il poeta, che poco dopo si autodefinisce «peregrino errante».
L’uomo, lasciato a se stesso, si perde in un moto centrifugo: solo un altro a cui - come a Goffredo - «il Ciel gli diè favore», può riportarlo nella strada che conduce al Destino.
Ciò vale «in scala», anche per il celebre episodio di Olindo e Sofronia (canto II). I due vengono condannati al rogo dal feroce Aladino, re di Gerusalemme: lei, innocente, al fine di evitare una strage tra i cristiani si era autoaccusata del furto di un’immagine sacra; lui si era a sua volta autoaccusato per salvare l’amata. Ma quando Olindo e Sofronia sono avvinti allo stesso patibolo, il giovane si lascia andare ad un lungo, sensuale lamento per non aver potuto godere la bramata felicità; un’angoscia appena mitigata dalla speranza di spirare bocca a bocca con lei (èros e thànatos!). La ragazza allora lo invita ad alzare la sguardo al Destino. «Amico, altri pensieri, altri lamenti, / per più alta cagione il tempo chiede. / Che non pensi a tue colpe, e non rammenti / qual Dio prometta a i buoni ampia mercede? / Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti, / e lieto aspira alla superna sede. / Mira il ciel come è bello, e mira il sole / ch’a sé par che n’inviti e ne console».
Il reale è segno che «invita» ad alzare lo sguardo su Dio; la moralità è coscienza delle proprie «colpe», memoria del Fine ultimo, libertà di obbedire al disegno di Dio, desiderio santo vissuto in letizia: ce lo ricorda Sofronia, etimologicamente “colei che pensa con saggezza”.
Da Dante, attraverso il Tasso, fino al Manzoni, è questo il giudizio cattolico sulla vita (e, come per sovrappiù, può anche accadere che il desiderio naturale si realizzi: qui è l’arrivo di Clorinda che salva la coppia dal rogo e permette il lieto fine delle nozze). A richiamarlo è sempre una «presenza» visibile e tangibile, persona o luogo fisico: Beatrice per Dante; Lucia, Cristoforo, Federigo, il duomo di Milano nel romanzo manzoniano; Goffredo e Sofronia all’inizio della Liberata, come Carlo e Ubaldo verso la fine.
Nel III canto la «presenza» che colpisce e commuove è la città di Gerusalemme. E’ l’aurora. Il campo si ridesta festoso, guidati dal saggio «capitan», i Crociati s’avviano verso la città. Proprio al sorgere del sole - quel sole che ha «orientato» i loro passi - «ecco apparir Gierusalem si vede, / ecco additar Gierusalem si scorge; / ecco da mille voci unitamente / Gierusalemme salutar si sente». E’ la vista di quel luogo fisico che permette di ricondurre ad unità il molteplice; o per dirla con Manzoni, di dare una gioia «uguale a tanta gente diversa»; è tenendo lo sguardo fisso su Gerusalemme («volgi lo sguardo a Solima») che gli uomini, «sparsi per tutti i liti», son fatti «uni per Te di cor» (La Pentecoste). I crociati salutano con entusiasmo il «desiato suolo». Poi al «gran piacer» subentra la commossa contrizione per la propria miseria e indegnità, di fronte all’incombenza di quei luoghi fisici in cui è accaduto l’avvenimento della Redenzione: «Alta contrizion successe, mista / di timoroso e riverente affetto. / Osano a pena d’inalzar la vista / ver la città, di Cristo albergo eletto, / dove morì, dove sepolto fue, / dove poi rivestì le membra sue».
E’ un’affezione piena di timore e tremore, un legame che scaturisce dalla ragione e dal cuore.
Questo riconoscimento e questo affetto, a Clorinda (l’eroina musulmana amata dal cristiano Tancredi, e da lui - ignaro di chi aveva di fronte - ferita a morte) sono dati solo nell’attimo supremo del trapasso. Con «parole ch’a lei novo uno spirto ditta, / spirto di fé, di carità, di speme; / virtù ch’or Dio le infonde», Clorinda dice a Tancredi: «Io ti perdon... perdona /... e dona / battesmo a me ch’ogni mia colpa lave». Lui, che solo ora la riconosce, dà «vita con l’acqua a chi col ferro uccise». Ciò le dà «gioia», tanto che «in atto di morir lieto e vivace, / dir parea: - S’apre il cielo; io vado in pace. - e gli occhi al cielo affisa; e in lei converso / sembra per la pietate il cielo e ‘l sole» (canto XII).
Quando lo sguardo converge al destino celeste, ogni cosa - anche la morte - si fa lieta. Quando invece i passi divergono ed «errano» in un moto centrifugo, tutto sembra apparentemente piacevole, ma poi tradisce: è l’evasione idillica di Erminia tra i pastori (canto VII); è soprattutto l’evasione erotico-edonistica nel giardino di Armida (canto XVI).
Questa maga, come l’Alcina di Ariosto, seduce i cavalieri. Ma l’idolo della voluttà, «mentre sembra promettere un paradiso terreno», ben presto rivela «l’incapacità di appagare pienamente quel bisogno di felicità che è nel cuore dell’uomo» (Pazzaglia).
Chi percorre integralmente le tappe di questa esperienza è Rinaldo: ammaliato da Armida, egli vive con lei in un’isola che sta oltre le Colonne d’Ercole, entro un ameno giardino circondato da un labirinto rotondo (il cerchio, simbolo geometrico di perfezione, lo connota come presunto luogo di pienezza naturale, in antitesi con Gerusalemme).
Riecheggiando i motivi dell’Aminta, qui Tasso mette in bocca ad un pappagallo quello che è forse il più sensuale invito al piacere erotico di tutto il Quattro-Cinquecento. In questa atmosfera, in mezzo ad una natura lussureggiante, si abbracciano e si baciano Armida ed un «effeminato» Rinaldo: mentre lei narcisisticamente si specchia in un «cristallo», lui si specchia negli occhi di lei, in una circolarità paralizzante che ben simboleggia l’offuscamento della coscienza dell’eroe.
A liberarlo intervengono due cavalieri cristiani, Carlo e Ubaldo. Rinaldo ora «si specchia» in un «terso / adamantino scudo» e torna a prendere coscienza della propria vera identità e del proprio compito. E’ il giro di boa dell’intera vicenda. L’eroe, che ha «attraversato» la menzogna del naturalismo rinascimentale, ed è tornato a vivere nella verità, assurge a protagonista degli ultimi canti: ripercorrendo le orme di Cristo, sale sul monte degli Ulivi; all’alba vede «l’oriente rosseggiar»; «con gli occhi alzati contemplando (...) bellezze incorruttibili e divine», riconosce che sarebbe semplice salire al Creatore attraverso lo splendore del creato, eppure noi uomini ci lasciamo distrarre dalla «torbida luce e bruna», idolatrando un volto femminile come quello di Armida; s’inginocchia, eleva il pensiero più in alto di ogni cielo, fissa agli occhi «ne l’oriente», ovvero verso il Destino luminoso, e prega il «Padre e Signor» che faccia piovere su di lui la Sua «grazia»; la rugiada di Dio lo lava, ridonandogli «secura baldanza» (canto XVIII). Sarà lui, di lì a poco, a vincere l’incanto della selva ed a salire per primo sulle mura di Gerusalemme.

Una fede vissuta in maniera drammatica

Tasso è un uomo di fede, certo vissuta in maniera drammatica e travagliata, insidiata, come accadeva a tanti suoi contemporanei, sia dalla superstizione della magia sia dall’edonismo naturalistico, ma ben ancorata all’ortodossia. Non è condivisibile il giudizio di chi - marxiano o freudiano - nega che vi fosse nel poeta «un intimo, profondo senso di religiosità» (Antonio Banfi); o giunge ad affermare «l’identificazione emotiva dell’autore con i pagani sconfitti», portatori dei valori rinascimentali del «pluralismo», della «tolleranza nei confronti dell’altro e del diverso», dell’uomo «fabro a se stesso», ovvero artefice del proprio destino, contro la «prepotente istanza integralista repressiva» propria della «restaurazione cattolica» (Sergio Zatti).
Tasso, consapevole del proprio genio, ha conosciuto la gloria e il successo; poi, per un ventennio, ha dovuto fare i conti con la propria fragilità, nella forma umiliante della malattia mentale. Gli si è fatto allora chiaro che la salvezza è una grazia che scende da Dio attraverso Maria (figura Ecclesiae), come risulta da questo sonetto alla Vergine, scritto a Sant’Anna nel 1585, e che sarà in parte riecheggiato da Leopardi: «Egro io languia, e l’alto sonno avinta / ogni mia possa aveva d’intorno al core, / e pien d’orrido gelo e pien d’ardore / giacea con guancia di pallor dipinta: / / quando di luce incoronata e cinta, / e sfavillando del divino ardore, / Maria, pronta scendesti al mio dolore / perché non fosse l’alma oppressa e vinta». A Lei il poeta si consacra: «Or sacro questo core / mentre più bella io ti contemplo in cielo, / regina, a te che mi risani e scampi».
Non stupisce che un uomo così abbia voluto chiudere i suoi giorni in un monastero.

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