Introduzione a "Shakespeare..." (seconda parte)

“Shakespeare. Il pensiero. I drammi” di Rocco Montano 2 -
La rappresentazione teatrale riesce a trovare, ad opera di grandi poeti come Marlowe e come Shakespeare, una unità, un centro dell’azione, un destino individuale circoscrivibile e diventa tragedia, meditazione religiosa sulle fortune, le sciagure, le cieche follie, la crudeltà e la bontà spesso travolta, del mondo umano.
Autore:
Montano, Rocco
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Ma c’è un altro punto, anche esso totalmente ignorato nella immensa letteratura shakespeariana, che porta alla stessa identificazione dello spirito del dramma shakespeariano ed esso è costituito dallo stesso processo storico che determinò la costituzione del sistema drammatico elisabettiano: un sistema che, come abbiamo detto, non potrebbe essere più antitetico a quello del teatro medievale e di quello riformato che si avrà con Milton. Fermi, da una parte, all’idea di questo legame con le rappresentazioni medievali e con la sua catena di trasgressioni e di castighi, e, dall’altra parte, attaccati a una lettura sostanzialmente distorta della Poetica aristotelica secondo la quale, ugualmente, si dovrebbe avere la finale punizione di un protagonista colpevole di un eccesso o di una trasgressione (Giulio Cesare troppo ambizioso, Re Lear troppo iracondo, Romeo troppo innamorato, Amleto troppo afflitto dalla perdita del padre) i critici di Shakespeare hanno finito per ignorare il modo in cui, fuori dalle lezioni edificanti del teatro medievale e indipendentemente da una utilizzazione in qualsiasi senso della Poetica (che viene conosciuta quando il teatro inglese ha già quasi completato la sua straordinaria carriera), muovendo dalla semplice messa in scena di cronache della vita dei re inglesi, a poco a poco, con l’interesse molto acceso del popolo e dei nobili per quella che era la loro storia, la rappresentazione teatrale riesce a trovare, ad opera di grandi poeti come Marlowe e come Shakespeare, una unità, un centro dell’azione, un destino individuale circoscrivibile e diventa tragedia, meditazione religiosa sulle fortune, le sciagure, le cieche follie, la crudeltà e la bontà spesso travolta, del mondo umano.
Sarebbe bastato il confronto, che non è mai stato fatto, con gli esiti assolutamente negativi ai quali portava, e aveva portato in Italia – come ho mostrato nella mia Estetica del Rinascimento e del Barocco (Napoli, 1962) – la poetica aristotelica con le sue macchinose peripezie, gli errori casuali, i fortunosi scioglimenti, le trame mitiche lontane da ogni aggancio con la tragica realtà contemporanea italiana, per rendersi conto di quanto fittizio fosse necessariamente il dramma libresco di origine aristotelica e di come, all’opposto, nata dalla diretta rappresentazione di scene della storia (furono infatti dette storie, oltre che cronache, le prime manifestazioni, ancora non unitarie, di questo teatro) la scena inglese poté approdare a una rappresentazione vera che escludeva a-priori ogni manipolazione, ogni adattamento dei fatti a scopi edificanti e si offriva di per sé, nella verità del fatto umano, al di fuori di ogni illusione di interventi divini, alla meditazione morale e religiosa.
E’ un dramma, quello shakespeariano, tanto distante dal dramma sacro medievale e dalla figurazione calvinistica della problematica della luce e della salvezza, dai temi che troveremo mezzo secolo dopo nell’opera del calvinista Milton (che manifestò il più fermo disprezzo per il teatro elisabettiano) quanto dalle trame astratte e prefabbricate del nostro Cinquecento. E’ un dramma che, in armonia con il migliore umanesimo (e tutto prova che Shakespeare ne ebbe, attraverso Moro, Petrarca, Montaigne, la migliore conoscenza; La Tempesta è la grande esaltazione della coscienza religiosa umanistica) non ha nessuna ombra di una tematica biblica, guarda e raffigura ciò che è alto e iniquo nell’uomo, mette in luce la cecità e la miseria, la fragilità della vita, mostra l’imperscrutabilità del destino da cui buoni e tristi sono ugualmente travolti, ci fa palpitare per la sorte di chi è buono ed è sconfitto, ci offre il mezzo più valido, come lo offrivano gli studia humanitatis per la conoscenza dell’animo umano e per la coltivazione dell’anima.
E’ di qui che nasce certamente la profondità, l’assoluta verità della tragedia di Shakespeare. E l’unica maniera per comprenderla, secondo noi, è quella di eliminare le infinite “tesi” per le quali (senza contare le arbitrarie riduzioni di base al teatro medievale o alla teoria aristotelica con le facili, manovrate lezioni edificanti che esse comportano) si è di volta in volta fatto uso di idiote fantasie freudiane, si sono fatte letture in chiave antropologica (Amleto dovrebbe essere la vittima designata della peste che incombe sulla Danimarca), o sociale; si sono ridotte le grandi tragedie a giuochi di equilibrio teatrale, a cosiddette “tragedie-problemi” in cui Shakespeare avrebbe lasciato allo spettatore la facoltà di scegliere tra l’una e l’altra posizione in conflitto; si è andato alla ricerca del “personaggio”, come se la sostanza del dramma possa essere la creazione di un personaggio più o meno interessante, Amleto o il Mercante di Venezia.
Si tratta soprattutto, noi diciamo, di mettere da parte i pregiudizi protestantici che hanno impedito di riconoscere l’esistenza di una visione cristiana non medievale, non calvinistica, che è assolutamente certa nella Inghilterra di Elisabetta ed è l’unica, che in tempi di calvinismo e di protestantesimo in generale esclusivamente interessato ai temi della salvezza e agli argomenti biblici, potesse permettere una figurazione ammirata delle grandi virtù romane e dar luogo, d’altra parte, a un gran numero di commedie antipuritane, di tipo ariostesco; fosse disposta a guardare al mondo della storia in sé, senza pregiudizi moralistici e timori puritani. E’ per gli stessi pregiudizi che è mancata persino l’idea di una tragedia cristiana non vincolata alla tematica della Bibbia e del Vangelo e impegnata nella pura contemplazione dell’umana vicenda e della tragicità della vita come la più vera fonte dei pensieri che portano a Dio. Ed occorre, naturalmente, togliere di mezzo la consacrata visione storica del mondo elisabettiano come di un mondo più o meno entusiasticamente e concordemente legato ai principi della filosofia riformata che hanno portato quasi sempre a vedere in Shakespeare l’apologeta della dinastia dei Tudor.
Si tratta, io dico, proprio del contrario. Questo libro potrebbe intitolarsi Shakespeare anti-elisabettiano. Non c’è in verità, nessuno più lontano di Shakespeare dall’idea centrale nella ideologia elisabettiana, e unanimemente attribuitagli, della sacralità del monarca e della ribellione come massimo peccato contro Dio. La sua religione è un’altra. Il titolo da me dato a una precedente redazione in inglese di questa monografia era Dall’umanesimo italiano a Shakespeare. La matrice del pensiero è ben altra da quella protestante e, ancor più, da quella laica, naturalistica. E mi rendo conto che di un problema come questo è estremamente difficile parlare anche in una cultura come la nostra, legata, da De Sanctis a Croce a Gramsci, a una concezione sorda a ogni prospettiva religiosa, disposta a cercare anche in Dante e in Manzoni solo ciò che, con molta distorsione, può apparire come mondano e sempre portata ad accettare anche i detriti della cultura protestante (si potrebbero qui menzionare le opere rozzamente propagandistiche e settarie di R. Bainton e di Carew Hunt accolte da noi come documenti di alta storiografia).
E’ anche estremamente difficile porre in Italia, pur con le conclamate battaglie anticrociane della cultura marxista di tutti questi decenni, il problema dei generi letterari e della essenza della tragedia in particolare, della stessa interpretazione della Poetica, ferma ancora alle grosse superficialità di Valgimigli e di Rostagni. Ma mi sembra che il problema sia assolutamente da porre, insieme con gli altri accennati.
A me preme di dire, tuttavia, che lo scopo di questo libro non è propriamente quello di fare una discussione sul Rinascimento inglese e sull’essenza della tragedia cristiana. Non è quello di colmare, come si usa dire, una lacuna nella nostra cultura così priva di ogni studio valido su un poeta che, come disse Jonson, appartiene ad ogni epoca e dovrebbe appartenere a noi quanto Dante e Virgilio. Basterebbe confrontare gli studi di elevato livello che escono ogni anno su Dante in Inghilterra e in America e alla quasi assoluta ignoranza dei nostri uomini di cultura del tema shakespeariano; basta considerare il fatto che laddove in Inghilterra e in America sono decine le traduzioni moderne, assai valide, in versi, di Dante, noi non abbiamo nessuna traduzione completa moderna in versi di tutto Shakespeare per vedere come sia indispensabile impostare una discussione sugli aspetti più essenziali del mondo shakespeariano. Il mio principale intento non è stato però quello di mettere in luce l’esistenza di un modo di pensare cristiano nell’Inghilterra elisabettiana interamente ignorato dalla critica e certamente fondamentale per l’opera di Shakespeare; non è stato quello di mostrare, cosa pure essenziale, ciò che distingue la tragedia cristiana che Shakespeare, appunto, attuò, dalla tragedia classica. Mi sono prefisso di dare, su queste basi, una lettura puntuale, fedele (come credo di aver fatto per Dante e, recentemente, per Montale) dei drammi più grandi, di mostrarne l’altissimo livello di poesia, di indicare come essi si inscrivono pienamente in una visione del mondo unitaria che è stata o negata o ignorata dalla critica. Credo di dare una lettura completamente nuova e rigorosa di Amleto e di Re Lear, di Giulio Cesare e della Tempesta, nonché dei Sonetti e, sia pure in modo compresso, di Re Giovanni e di Enrico VIII. La mia speranza è che al di là della discussione critica, il libro giovi a far sentire l’altissimo pathos, non quello romantico, dei drammi.
Può essere infine utile precisare che le analisi di cui questa monografia shakespeariana si compone hanno il loro fondamento da una parte nei miei studi sulla letteratura e sul pensiero del Rinascimento (vedi: Saggi di cultura umanistica, 1962; Idea del Rinascimento, monografia incompleta pubblicata nelle riviste Delta e Umanesimo); Lo spirito e le lettere vol. II (1970) e quelli sulla estetica e la speculazione aristotelica del Rinascimento (vedi specialmente Estetica del Rinascimento e del Barocco (1962) nonché nelle mie monografie Machiavelli. Valore e limiti (Sansoni, 1974) e Il superamento di Machiavelli (1976) e in studi più specificamente shakespeariani pubblicati in inglese e citati nella bibliografia. Per le questioni di metodo e i problemi del genere letterario, della storia della letteratura mi permetto di rimandare al volume Miti della critica postcrociana (Napoli G. B. Vico 1973). Mi pare che il presente studio convalidi quelle premesse storiche e teoriche e viceversa trovi in esse ogni necessario fondamento.

Per ulteriori approfondimenti:
Centro Studi Rocco Montano