Introduzione a “Shakespeare..." (prima parte)
"Shakespeare. Il pensiero. I drammi” di Rocco Montano - 1 - Una visione totalmente nuova del mondo e dell'opera di Shakespeare- Autore:
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Questo saggio è il risultato di vari corsi e seminari di Letteratura Comparata tenuti nell’Università di Illinois a livello di dottorato, sull’estetica del Rinascimento, sui problemi della tragedia, classica e moderna, sui rapporti di Umanesimo e Riforma e su Shakespeare in particolare. Tutta l’interpretazione qui data è stata messa a confronto, nel corso dell’ultimo decennio, con la più valida letteratura critica sull’argomento ed è stata saggiata in numerosi dibattiti tenuti in varie università americane nonché in incontri con autorevoli esponenti della critica shakespeariana. La reazione alle tesi qui esposte, e dalle quali risulta una visione totalmente nuova del mondo e dell’opera di Shakespeare, sono state le più varie: di incredulità, stupore, entusiasmo e anche irritazione, ribellione. I giovani, in genere, non legati, come gli specialisti, a modi di pensare consacrati dal tempo e da una sconfinata letteratura, hanno accettato con convinzione e, direi, con eccitazione, l’interpretazione che qui viene data. Certamente non vi sono state obiezioni aventi un qualunque serio fondamento. E a me è parso, e pare, che l’argomentazione che è alla base del saggio, l’aderenza ai testi shakespeariani e allo svolgimento delle idee morali e religiose del mondo elisabettiano siano talmente chiare da non rendere necessaria una vasta documentazione erudita. L’organicità della ricostruzione penso che dovrebbe farsi valere per sé, qualunque siano le comprensibili resistenze. Quando con la mia Storia della poesia di Dante misi in luce che nella Commedia era fondamentale distinguere tra Dante personaggio, implicato nei cedimenti e negli atteggiamenti assolutamente negativi delle anime dannate, e il poeta che ritrae tali incontri dall’alto di una altissima, mai smentita coscienza cattolica, e ricavai da tale distinzione, nonché dal riesame completo di tutta la carriera mentale di Dante fino al Paradiso, una visione completamente nuova di tutto il Poema e mostrai, fra l’altro, che questo era il risultato di una profonda conversione verificatasi dopo il fallimento di Arrigo VII, il frutto, altresì, di una fondamentale “liberazione dalla allegoria”, la critica dantesca restò disorientata. Anche i più autorevoli dantisti non riescono, ancora, dopo venti anni, a fare i conti con una interpretazione che rende totalmente superato e ridicolo tutto il loro dantismo risorgimentistico. Ma tutti i lettori non trattenuti dalla vergogna di dover confessare che la propria cultura dantesca, con la tradizione critica che va da De Sanctis e Foscolo a Sapegno e oltre, è interamente da cestinare, hanno finito per riconoscere che non c’è altro modo di leggere Dante se non quello da me prospettato, la migliore critica straniera ha fatto sue le prospettive e le interpretazioni da me date. Per Shakespeare il fatto è questo: la critica inglese e americana ha ignorato almeno due direzioni fondamentali per giungere a una comprensione del dramma shakespeariano. Prima di tutto è restata ancorata al grosso pregiudizio storico, assolutamente fuorviante, secondo il quale ci sarebbe una più o meno unitaria visione elisabettiana del mondo che Shakespeare rispecchierebbe: una visione in cui sarebbero compresenti motivi della religiosità medievale, tendenze calvinistiche, elementi stoici e neoplatonici di quello che si crede sia l’umanesimo italiano, forme più o meno scoperte di naturalismo. In Shakespeare volta a volta questi motivi si manifesterebbero senza che si possa parlare di una specifica adesione sua all’una o all’altra dottrina. Si è insistito, anzi, sul fatto che Shakespeare non aderirebbe a nessun credo, si limiterebbe a rappresentare gli inevitabili conflitti della vita: libertà e autorità, amore e vincoli sociali, ambizione e coscienza morale ecc. Si è ripetuto infinite volte che non c’è una unica visione shakespeariana del mondo da cercare, che ogni dramma sta a sé, che vi sono tanti Shakespeare quanti sono i drammi. I romantici, fino a Croce e ai molti altri odierni romantici in ritardo, si esaltarono per quello che essi considerarono come puro spettacolo della vita, per l’esaltazione delle passioni, per la Bellezza, sia pure non letterariamente raffinata, del dramma. Il massimo che si è riusciti a stabilire, quando si è voluto dare una qualsiasi indicazione sulla posizione o sulla coscienza religiosa del poeta, è che egli appartenne alla Chiesa di Inghilterra. Né ci si è preoccupati di notare che questa chiesa fu, per tutto il regno di Elisabetta e anche dopo, l’unica chiesa esistente, che non c’erano possibili scelte. Ci si è rifiutati di considerare che furono molte centinaia le persone condannate, consacrate al martirio, squartate in piazza, come il poeta Sitwell, gente che di nascosto ascoltava la messa o non denunziava il prete che la diceva. Una adesione formale alla chiesa ufficiale, come l’adesione di un cristiano, oggi, al comunismo in Russia, da parte di un poeta come Shakespeare, sarebbe stata – se vi fosse stata – più che comprensibile. Ma non esiste, come vedremo, nessuna prova che essa ci fu. Esistono molte prove in contrario.
Ma non è, ovviamente, il fatto biografico che conta. Né, d’altra parte, è minimamente accettabile l’illazione della massima parte dei critici secondo i quali l’assenza di una qualsiasi problematica biblica, della chiesa riformata e di ogni esplicito riferimento ai problemi della grazia, della luce e della perdizione eterna (c’è un buon numero di interpreti, peraltro, che si affannano a dimostrare che il teatro shakespeariano è sicuramente impostato sulla simbologia cristiana e Otello e Amleto sono simboli di Cristo e il fazzoletto di Desdemona è il sudario: conclusioni pietose ma che non sono affatto cose da meravigliarsi in un campo in cui è diventato possibile dir tutto e il contrario di tutto) testimonia che il mondo di Shakespeare è semplicemente il mondo terreno e non ha nulla a che fare con una qualsiasi ispirazione o implicazione religiosa, cristiana.
Ciò che è assolutamente mancato in tutta la critica shakespeariana inglese e americana (né è certo da cercarne traccia in quella italiana che, a parte le intuizioni profonde di Manzoni e valide analisi di Galletti, studi particolari, assai seri, di Mario Praz su Machiavelli in Inghilterra, non ha fatto che rimasticare a livello quasi sempre elementare la critica anglosassone e si può dire sia sostanzialmente inesistente) è stata la capacità di rendersi conto della esistenza, nel mondo elisabettiano, di una visione della vita, religiosa, cristiana profondamente in antitesi con quella riformata e legata, da una parte, alla tradizione della “vecchia fede” (di cui infiniti elementi ci provano la perdurante, clandestina vitalità) dall’altra alla linea umanistico-cristiana, anti-protestante che va da Petrarca a Tommaso Moro, a Montaigne (gli autori che rappresentano le più sicure presenze nella ideale biblioteca di Shakespeare). E’ questa la “dolce religione” di cui parla Amleto il quale, in totale antitesi con l’idea calvinistica e luterana della assoluta corruzione dell’uomo e della servitù dell’arbitrio, esalta la “divina ragione” e l’“anima signora del suo arbitrio”. E’ una concezione che esclude ogni medievale illusione di diretti interventi della luce, di ispirazioni bibliche miracolanti (sa che la religione e la verità entrano in noi, come spiegava Montaigne, non per infusione divina ma per mezzo delle nostre forze terrene) e fa dipendere la salvezza da consapevoli scelte morali, da acquisti della ragione nel campo della verità, da una esperienza e da una pratica della virtù formata con la lezione dei fatti e quella della antica sapienza. Ed è a essa che, senza alcun dubbio, si lega un teatro come quello elisabettiano che in effetti sopravvisse agli incessanti e feroci attacchi degli ambienti calvinisti solo per una serie di circostanze particolari e, prima di tutto, per la protezione interessata della stessa regina che non poteva e non voleva togliere al popolo e ai nobili il più importante intrattenimento e sapeva, inoltre, che, con la rappresentazione degli eventi della passata, tragica storia d’Inghilterra, quelle rappresentazioni valevano a magnificare la pace, sia pure insanguinata internamente, assicurata dalla sua dinastia; un teatro in cui è la pura contemplazione dell’umanistico regnum hominis, con le sue cadute, le immeritate miserie di nobili spiriti, il prevalere assai frequente della nequizia, che fornisce la lezione morale per l’elevazione dell’anima a Dio.
E’ questo il fondamento di una tragedia che rimane apparentemente estranea ad ogni tematica religiosa (ed è certo la più lontana dalla cosiddetta “metafisica medievale”, della quale un po’ tutta la critica shakespeariana ha parlato, e parla, e secondo la quale il teatro elisabettiano sarebbe, come continuazione del teatro medievale, fondato sul principio del castigo divino che cade immancabilmente sul colpevole o sul ribelle alla divina autorità del monarca), ma è pure impregnata, più che nessuna altra opera d’arte dell’Occidente dopo Dante e Michelangelo e prima del Manzoni, della coscienza cristiana della fragilità dell’uomo, delle passioni che accecano, della bontà che, anche sconfitta sulla terra si pone, come in Cordelia, in Re Lear, in Riccardo II, in Caterina di Spagna, in Amleto, al di sopra di ogni sciagura. Non per nulla Shakespeare scrive un Enrico VIII che nella parte sicuramente autentica (l’opera fu molto probabilmente interrotta per i chiari pericoli a cui il poeta sarebbe andato incontro nel pur mutato corso di Giacomo I; ci fu subito dopo l’abbandono, inspiegato, da parte del poeta, del teatro) è il più feroce attacco contro i fondatori della nuova chiesa e progettò un dramma su Tommaso Moro, l’eroe della resistenza, in nome della coscienza cattolica, alla subordinazione della chiesa al monarca, decisa dallo stesso Enrico VIII.
La linea che va da Moro e dal cardinale Fisher (i due messaggeri dell’Inghilterra, come disse il cardinale Polo, mandati da Enrico a Dio) ad Ariosto a Montaigne, è più che manifesta. Ed è la conformità con tale linea di un teatro che esclude ogni illusione di diretti interventi divini nel mondo ma fa della contemplazione delle vane lotte degli uomini, delle cadute repentine, delle spesso immeritate miserie, della inarrestabile nequizia di un Riccardo III la vera scuola dell’anima, la vera essenza, mondana e insieme profondamente religiosa, la fonte vera della poesia di Shakespeare.