Echi e suggestioni leopardiane ne "Il Gattopardo" 1 - La drammatica sproporzione
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Nel romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa emergono riflessioni, situazioni e immagini che richiamano il pensiero e la scrittura di Giacomo Leopardi. E nel testo narrativo dell’Autore siciliano le tematiche leopardiane acquisiscono ulteriore grandezza e profondità.
Il romanzo, scritto nel 1956, un anno prima della morte dell’Autore, racconta la vita di Don Fabrizio Corbera Principe di Salina negli anni compresi fra il 1860, data dello sbarco dei Garibaldini in Sicilia e il 1883, anno della sua morte.
Contrariamente alla definizione critica più diffusa che lo riguarda, Il Gattopardo non è un romanzo storico, o meglio non è solo questo: gli avvenimenti storici sono presenti, ma fanno da sfondo, e se ne sentono solo gli echi lontani riflessi nella vita e nei dialoghi dei personaggi.
E’ piuttosto un romanzo esistenziale perché il protagonista, nello scorrere del tempo fa della sua vita una trama di domande e di riflessioni su tutto ciò che gli succede, sulla realtà che lo circonda, sulla vita e sulla morte, riflettendo pensieri e sentimenti del Narratore che con lui si identifica.
Don Fabrizio si trova a vivere un periodo di transizione, appartiene ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi, e si trova a disagio in tutti e due, perché ha la consapevolezza del progressivo inarrestabile lento declino della classe nobiliare travolta dagli eventi e dai nuovi ricchi, ma patisce l’inerzia e l’incapacità di agire di chi, come lui, si sente privo di ideali per cui muoversi.
Ma il perpetuo scontento nel quale vive il Principe non è dato dalla turbolenza degli avvenimenti storici che pur sconvolgono la sua esistenza e la sua terra, ma piuttosto da una inclinazione del cuore, da un disagio esistenziale che dà voce al pessimismo profondo dell’Autore, definito dalla critica cosmico e leopardiano.
La stessa visione della vita e della condizione umana accomuna il poeta dell’800 e lo scrittore degli anni ’50 e li conduce entrambi a guardare con lucida spietatezza la negatività della vita, a vivere drammaticamente la sproporzione fra il desiderio di felicità e la realtà, a descrivere la natura cogliendone l’intimo patimento e infelicità, a cercare negli spazi stellari una risposta alla profonda aspirazione alla bellezza e alla felicità.
Così nelle prime pagine del romanzo il Tomasi descrive il giardino bellissimo che circonda il palazzo dei Salina. Lì è ritratto il Principe all’ora del tramonto, circondato da una vegetazione lussureggiante dove trionfano piante di limoni, garofani, magnolie, rose e zagare, ma l’impressione che se ne ricava, è contraddittoria e l’aroma è putrido: …da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccata dalla pigrizia e l’odorato poteva trarre da esso un piacere forte benché non delicato. Persino le piantine di rose acquistate a Parigi e lì trapiantate erano degenerate e per la calura implacabile si erano trasformate in enormi cavoli carnosi e maleodoranti.
Con lo stesso procedimento Leopardi parla della souffrance della natura di un giardino descritto nello Zibaldone, dove lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vista è triste e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale, perché un’attenta osservazione rileva la presenza di ogni forma di violenza, malattia e morte.
Alla percezione negativa suscitata dalla vista del giardino si accompagna nel Principe il ricordo del cadavere di un soldato borbonico trovato qualche giorno prima bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl'intestini violacei avevano formato pozzanghera e il lezzo emanato si fondeva con una grande pietà per il giovane e profonde considerazioni, perché morire per qualche d’uno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine- egli pensava - occorre però sapere o essere certi che qualcuno sappia per chi o perché si è morti…e appunto qui cominciava la nebbia.
Doveva sicuramente esistere Qualcuno che possedesse il senso di quella esistenza stroncata, della vita, della morte e di ogni cosa, ma per il protagonista questo Qualcuno è percepito come una presenza lontana, un volto nebuloso.