"Il Gattopardo" 4 - Le domande di don Fabrizio
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Concluso il momento dell’orazione, le donne, i bambini, la servitù riprendono le loro normali attività nel palazzo, mentre Don Fabrizio scende in giardino accompagnato dal fedele Bendicò, l’alano compagno inseparabile del suo padrone.
Una vegetazione lussureggiante lo accoglie: garofani, rose, zagare e magnolie emanano profumi intensi e avvolgenti, ma l’impressione che se ne ricava, ricalcando il procedimento leopardiano di descrizione di un giardino di piante e fiori presente nello Zibaldone (6), è contraddittoria
…da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccata dalla pigrizia e l’odorato poteva trarre da esso un piacere forte benché non delicato. Persino le piantine di rose acquistate a Parigi e lì trapiantate erano degenerate e per la calura implacabile si erano trasformate in enormi cavoli carnosi e maleodoranti. (7)
E nel giardino il cadavere di un soldato borbonico era stato trovato qualche giorno prima bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl'intestini violacei avevano formato pozzanghera e il lezzo emanato si era fuso con una profonda pietà per il giovane straziato che si era spinto fin lì a morire, circondato di fiori, sotto gli alberi di limoni perché morire per qualche d’uno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine; occorre però sapere o essere certi che qualcuno sappia per chi o perché si è morti… e appunto qui cominciava la nebbia(8)
Tre righe straordinarie.
Tomasi non ha bisogno delle parole che descrivano la statura umana, la profondità d’animo, del protagonista. Va diritto al cuore del suo personaggio: davanti al soldato morto don Fabrizio non distoglie lo sguardo, inorridito o disgustato, si interroga, cerca delle risposte, come fa sempre, davanti ad ogni cosa. E questa è la sua grandezza.
Qual è il senso di quella vita stroncata, della vita e della morte e di ogni cosa?... e il patir nostro, il sospirar, che sia, diceva Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Come ciascuno di noi, anche Don Fabrizio voleva, aveva bisogno di essere certo che qualcuno esistesse e sapesse per chi o perché si è morti, altrimenti non solo la morte, ma neppure la vita avrebbero senso e significato. Ma questo qualcuno, se pur affermato, nella vita del Principe è una presenza ancora lontana, un volto nebuloso.
NOTE
6) Giacomo Leopardi, Zibaldone [Pensieri vari e frammenti].
7) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, edizione a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Feltrinelli,1969, pagg. 34, 35.
8) Ibidem, pag. 36.